venerdì 18 agosto 2017

Il mio amico George (30)

"D'altronde era stata una tua idea quella di invitarla a pranzo, quel sabato", mi rimprovera George mentre, un po' sovrappensiero, guido verso casa.
"E dato che l'idea era stata tua, ti confesso che in più di un'occasione ero stato tentato dal piantarti lì a sbrigartela da sola. Sì perché parlare con lei mi dava la sensazione di sprofondare. Di sprofondare, lentamente, in fondo all'oceano. Un senso di oppressione progressivo, un buio via via più fitto. Che poi... Parlare... Si trattava più che altro di sentirla parlare, c'erano ben poche occasioni per intervenire e interromperla. Nemmeno ascoltarla avrebbe avuto alcun senso e, mia cara, spero proprio tu non lo stessi facendo. Non serve ascoltare chi ritiene di dover essere importante per tutti quelli che incontra".
Non potevo dargli torto, ci eravamo ritrovati a sistemare i piatti con un insolito senso di liberazione, non appena se n'era andata. Non potevo dargli torto nemmeno nel riconoscere che era stata una mia idea. Avevo invitato a pranzo una persona che, come l'aveva definita lui, pensava di dover essere importante per tutti quelli che incontrava.
Me n'ero resa conto alla frutta.

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