martedì 29 dicembre 2015

Settantadue ore e vent'anni

Ci sono tre personaggi.
Il primo, A, ha un ottimo impiego, in un'azienda dalle solide basi e dalle favorevolissime prospettive; il secondo, B, amico di A, pur essendo e apparendo una persona brillante e con un'ottima formazione alle spalle, attualmente non ha un lavoro; il terzo, C (acronimo dell'acronimo di Che poi sarei io) assiste da osservatore non partecipante a un dialogo tra A e B. Non partecipa, C, perché manco li conosce, A e B. Si trova solo a intercettare una loro conversazione, dalla quale intuisce la breve descrizione che, riferendoci ai due personaggi, è appena stata abbozzata.
Al momento dei fatti, A è in ferie e si sta lamentando con B perché in fondo avverte la mancanza del proprio lavoro. Sì, sai, dovevo obbligatoriamente prendermi questi tre giorni, però non vedo l'ora che passino, mi pesa un po' stare a casa, anche perché nelle ultime settimane ho cominciato a seguire un progetto particolarmente interessante su...
C ascolta, e si pone molteplici domande. Per esempio si chiede, C, se nel momento della distribuzione prenatale della dose regolamentare di empatia, A non fosse stato occupato a riscuotere una porzione tripla di miopia emotiva. Si chiede anche, C, quanta abulia nasconda il silenzio di B, o quanto studiato autocontrollo. Si domanda inoltre se darebbe più volentieri uno schiaffo ad A, per farlo tacere, o a B, per farlo reagire. C'è del fastidio, nel volto di C, perché è costretto ad ammettere a sé stesso che quello che inizialmente sembrava sale, nella testa di A (parlantina sciolta, linguaggio forbito e una certa disinvoltura nei modi), evidentemente era forfora. Vorrebbe anche, C, insinuarsi nei pensieri di B, per capire se stia davvero ascoltandolo, A, o se non sia abituato a sproloqui di quel genere; in tal caso, forte dell'allenamento pregresso, magari B sta semplicemente immaginando cosa prepararsi per cena, ignorando bellamente le angustie di A sulle ferie forzate.
Molteplici domande si pone, C, e probabilmente altre se ne porrebbe, se continuasse ad ascoltare A e B. Il quale, però, essendo giunto alla propria destinazione, si alza, abbottona la giacca, recupera la borsa, e scende dal treno, lasciando A e C a, rispettivamente, settantadue ore e vent'anni di inquietudine.

domenica 13 dicembre 2015

Il melograno che melograno non era

"Mi ricordo bene di Matilde", mi raccontò un giorno mio padre. "Le piaceva molto un frutto che le era capitato di assaggiare anni prima, in uno dei suoi viaggi in solitaria. Era simile a un melograno, diceva, ma melograno non era. Si poteva mangiarne anche la buccia, sgranocchiandolo come una mela. Maturava nel tardo autunno, a differenza della maggior parte della frutta su cui le era capitato di affondare i denti. E a differenza, devo ammetterlo, della maggior parte della frutta che dal mio vivaio avrei avuto la possibilità di offrirle. Ma era Matilde, tu la conosci, così bizzarra e imprevedibile che finii con l'archiviare la questione pensando che fosse tutta un'invenzione di lei.
Una sera, invece, recuperando un catalogo che tua madre aveva fatto passare direttamente dalla cassetta della posta al cestino della carta, mi imbattei nel frutto di cui tante volte Matilde mi aveva parlato. Non glielo dissi, ma decisi di farle una sorpresa, sai che amo osservare le reazioni degli altri di fronte all'inatteso. Così comprai quella pianta.
Dopo un paio di settimane arrivò un alberello insignificante, come peraltro mi sarei aspettato. Lo misi a dimora, non prima di aver notato che l'etichetta che lo accompagnava era singolarmente lunga: parlava non tanto di, sì sai?, le solite cose, esposizione, irrigazione, tempi di maturazione... No, no, nulla di tutto ciò. Parlava piuttosto di ciò che sarebbe inevitabilmente cresciuto attorno alla pianta. Ma non ci diedi peso. Tu ben conosci la costanza con cui mi assicuro che ciascuno dei miei alberi cresca come si conviene, ben potato, pulito, senza erbacce attorno. Così guardai l'etichetta. Ma non ci diedi peso.
Al trascorrere delle settimane e dei mesi, invece, attorno a quella pianta cominciarono a spuntare pianticelle che non avevo mai visto prima. Non che fossero infestanti, sia chiaro, se ne stavano circoscritte, attorno a quell'unico alberello, senza insinuarsi tra i peschi o i peri che crescevano lì vicini. Ma non mi piacevano, avevano forme che... non saprei spiegartelo... Decisi di provare a toglierle, ma così facendo vidi che la pianta attorno cui erano nate cominciava a indebolirsi. Mi risolsi quindi a lasciarle prosperare, limitandomi a qualche spuntatina qua e là.
Intanto Matilde continuava a venirmi a trovare, e io dal canto mio continuavo a glissare con malcelata noncuranza quando mi chiedeva cosa ci fosse in quella zona di vivaio così stranamente abbandonata. Quell'anno la pianta non diede frutti, dovetti attendere il novembre dell'anno successivo. Nel frattempo la vegetazione attorno era cresciuta, rinvigorendosi, e allontanandomi. Non camminavo volentieri su quel pezzo di terreno, mi sentivo a disagio, cose da non credere, vero? Però vedevo che tre frutti stavano maturando, e quando ritenni che fosse giunto il momento, andai a staccarne uno e lo portai a Matilde. Pensavo che avrei dovuto spiegarle di cosa si trattava ma non fu necessario, lei capì immediatamente che quello che le stavo portando era quel melograno che melograno non era. Volle venire al vivaio per vedere, e lungo la strada dovetti spiegarle cos'erano quelle piante insolite che crescevano attorno al suo albero, perché, sì, per me quello era l'albero di Matilde. Una volta arrivati, scese dalla mia auto e decise di staccare il secondo dei frutti, ma nel camminare in mezzo a quell'erba non la vidi felice. Staccò il suo frutto, mi venne vicina e mi ringraziò, tenendolo ben stretto tra le mani. Mi ringraziò come per scusarsi, mi diede un bacio sulla guancia e fece per andarsene. Le chiesi di accompagnarla a casa, il sole stava scendendo e il novembre di quell'anno era insolitamente rigido. Mi sorrise, come per scusarsi, ma mi disse di no. Mi avrebbe fatto felice immaginarla a sgranocchiare quel frutto seduta per terra, con le gambe incrociate e la schiena appoggiata al muretto a secco vicino al ciliegio di casa sua, come la vedevi in certe mattine d'estate. Invece la vidi camminare verso casa, accompagnata da quell'ombra affusolata che si lasciava alle spalle".

lunedì 7 dicembre 2015

Scintille di fuochi ormai spenti

Chiudila piano, la porta, mi dico, quando sto dimenticando qualcosa, e non svegliare ciò che, dentro, si sta assopendo.
Dimenticare volutamente, l'oblio conscio dell'intenzionale allontanamento, raccogliere la cenere e bruciarne le ceneri, mille volte, finché non rimanga che un soffio di polvere inerte. L'abitudine con cui dimentico tutto, o quasi, l'abitudine a dimenticare, o l'abitudine per dimenticare, rivivere e rivivere e rivivere con la memoria ciò che si è perduto, riviverlo fino a consumarlo, fino a che i contorni diventino così labili da confonderlo con l'irreale.
Chiudila piano, la porta.