mercoledì 19 agosto 2015

Acciaio e simboli

Ieri sera, in macchina con IlTronista, ci si confrontava parlando dei cambiamenti frutto di decisioni apparentemente insignificanti, dettate dal momento. Succede però che, come un uragano scoppiato a New York, queste decisioni piccole facciano smettere a una farfalla, a Roma, di sbattere le ali.
Una modifica genera ulteriori modifiche, in una realtà altra le cose probabilmente potrebbero andare diversamente, ma qui so che è necessario cambiare, per essere abbastanza sicuri di stare vivendo.

Non è raro trovarsi a dover chiudere un capitolo, anche se può trattarsi di un'operazione lunga, strascicata, impegnativa. E, per quel che mi riguarda, solo quando sono certa che sia avvenuta, solo allora mi capita di aver bisogno di un simbolo, per concretizzare il tutto.
Un simbolo è anche un buco nel sopracciglio, che sarà mai, non può fare così male.
Balle. Fa male. Ma è dolore fisico, di quelli che quando finiscono, si dimenticano.

mercoledì 12 agosto 2015

In un click

Realizzo di essere tutto fuorché lungimirante quando vedo i turisti girare con il selfie-stick e ricordo le risate che mi feci la prima volta che sentii parlare di quell'aggeggio, che erroneamente giudicai destinato a una facile e ingloriosa fine.

(Pausa di un paio di minuti per recuperare le forze dopo aver scritto selfie-stick. Non ho il fisico per certe cose).

E invece, in barba alle mie miopi previsioni, le città d'arte sono invase da orde di barbari armati di bacchette, quasi a sembrare branchi di rabdomanti alla ricerca, anziché dell'acqua, dello scorcio, del dettaglio, e poco importa se si tratta di un piccione, di un affresco, di un monumento, di un tramonto o di un paracarro. Scatto, ergo sum.
Osservavo con malcelato fastidio la gente dentro ai musei: c'erano quelli che fotografavano a tappeto, ogni opera un click, dalla prima all'ultima, forse nella foga avranno fotografato anche le sedie dei sorveglianti, non ha importanza, purché si scatti. C'erano quelli che fotografavano a campione, ogni tanto, svogliatamente, giusto perché di sì, controllando come fosse venuta l'ultima foto fatta, e intanto camminando e perdendo l'occasione di vedere tutto ciò che stava realmente loro attorno. C'erano quelli che cedevano all'ebbrezza del proibito, fotografando e filmando solo là dov'era vietato farlo. Tutti con lo sguardo all'altezza del display, tutti inconsapevoli dei soffitti, degli stucchi, dei vicini con i quali andavano inevitabilmente a scontrarsi.
Una volta, nel camminare, facevo attenzione a non passare davanti a qualcuno che stesse fotografando qualcosa. Bene, ora ho detto addio a questo tipo di attenzioni, anche perché altrimenti certi luoghi diventerebbero un gigantesco uno-due-tre-stella.
La tentazione, mio dio, la tentazione di scuotere qualcuno di questi pretesi Steve McCurry, e di chiedergli se si rende conto che sta facendo centinaia, letteralmente, centinaia di foto non solo brutte, ma anche inutili, perché nessuno le vedrà mai, chi vuoi che si metta a guardare il pezzo di affresco che hai fotografato male, tagliandone inevitabilmente più parti, prendendo di schiena quei due americani che non si spostavano, con una luce orribile e con mano malferma? Nemmeno tu, imperdonabile autore, ci perderai più tempo, ma intanto avrai perso l'occasione di guardare dal vivo, senza interposto smartphone, opere che non vedrai più, e che tanto valeva che sfogliassi su un qualche libro di storia dell'arte. Ripenso a Calvino, non posso farne a meno, al suo siete sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, e che quindi per vivere veramente bisogna fotografare quanto più si può, e per fotografare quanto più si può bisogna: o vivere in modo quanto più fotografabile possibile, oppure considerare fotografabile ogni momento della propria vita. La prima via porta alla stupidità, la seconda alla pazzia.

giovedì 6 agosto 2015

Un bicchiere di inchiostro

Ti scrivevo nel tentativo di individuare un posto dove appoggiare la testa, chiudere gli occhi e impedire a tutte le cose che avevamo detto di insinuarsi nei miei pensieri.
Scrivere era come un bicchiere, da cui bevevo tranquillità a piccoli sorsi e che qualcuno provvedeva a riempire con zelo. Era una specie di stampella a cui mi appoggiavo, anche se un po' troppo spesso, probabilmente. Forse era una stampella brutta, ma serviva al proprio scopo, che era quello di allentare i lacci dell'inquietudine, della malinconia.
Ricordo quando pensavo che se fossi stata in grado di muovermi, allora forse già da tempo me ne sarei andata; quando desideravo conoscere le astuzie di un angelo, in modo da non dover più danzare coi miei fantasmi.




martedì 4 agosto 2015

Sorridevi, e non guardavi

Nell'andarmene a fare due passi, stasera, ho assistito a una di quelle situazioni semplici, di quelle che mi fanno sorridere in modo tranquillo, qualsiasi siano i pensieri che mi stanno tenendo discreta compagnia: un papà stava insegnando al proprio figlio ad andare in bicicletta.
È come se un cerino si avvicinasse a un cumulo di paglia secca, per qualche istante non c'è altro che il fuocherello emotivo del ricordo delle sere estive in cui una parte di me sperava che la mano che mi aiutava a tenermi in equilibrio non la smettesse di sorreggermi mentre cominciavo, incerta, a pedalare.
Scalda e brucia rapido, e lascia tiepide braci che sembrano suggerirmi di attingere con parsimonia a certi ricordi, come se ogni volta che li lascio riaffiorare diventassero via via più labili, evanescenti.