lunedì 29 giugno 2015

Adieu

Era come se due lacrime silenziose, caute, fossero andate gonfiandosi come si gonfiano le onde, che da lontano appaiono inizialmente innocue increspature di quel corpo materno e sfuggente che è il mare. Inoffensive.
Era come se, per uno scossone, non fossero più riuscite a mantenere l'equilibrio precario con cui si erano aggrappate alle palpebre. Lente, nello scivolare lungo le guance. Lente. C'era molta inerzia, c'erano molti attriti, ma di contro c'era il peso greve delle tante immagini che contenevano, come due minuscole teche cristalline, ormai decise a frantumarsi.
Era come se, arrivate all'altezza del mento, non trovando più alcun appiglio, si fossero staccate dal viso con un tacito tuffo, morbido, adieu.
Il tonfo, ancora più inavvertibile, che avrebbero fatto sulla pagina sarebbe stato così quieto che non sarebbe riuscito a svegliare nessuno, non avrebbe potuto destare nemmeno una farfalla, nemmeno un ricordo, un'anima, nulla.
Sarebbe stata una cosa davvero piccola e leggerissima. Impercettibile.

Si sarebbe sentita, a prestare attenzione, solo la risacca.

domenica 21 giugno 2015

Non cantate la Luna. (Storia di una richiesta classista)

Un giorno un medico mi rimproverò, non so se in qualità di medico o di confidente, quello che lui giudicava, in tutto o in parte, come un difetto: "Non sei classista, dovresti esserlo". A sua parziale discolpa va detto che non mi conosceva. Io lo sono, classista, e molto, e...
Ma forse è il caso che cominci dal principio.
Mi trovavo, pochi giorni fa, in una sala d'attesa, in compagnia di poche altre persone. La radio era accesa, e da quella radio sentii trasmettere una canzone di un cantante italiano dal cognome metallico. Provai imbarazzo alla stupidità delle parole che stava cantando, sentii quei versi e avrei voluto alzarmi e chiedere scusa a tutti i presenti, non pensiate che io sia d'accordo con quello che sta blaterando quel tizio, non pensiate che apparteniamo alla stessa specie umana, non ne voglio sapere, not in my name.
Da lì, per distrarmi, presi il largo e pensai alle altre idiozie che mi capita di leggere, ai versi non richiesti che vengono condivisi, versi che si potrebbero perdonare a un bambino di pochi anni, ma che in età adulta dovrebbero essere segnati come una tacca di indelebile ignominia, una lettera scarlatta cucita nell'anima (o quel che sia) di chi li ha scritti.

Non cantate la Luna, coloro che lo sanno fare senza essere patetici, ridicoli, emetici, sono quasi tutti morti, understand?, morti, defunti, e dire che i gusti sono gusti è solo un modo sbagliato per negare l'esistenza di un bello e soprattutto, soprattutto di un brutto oggettivi.
Non cantate la Luna, i tramonti, o se lo fate nascondete le vergate carte nella cassaforte dietro quella brutta natura morta (morta, anche lei) in corridoio, perché io sento accartocciarmisi l'anima (o quel che sia) come un foglio di brutta copia da cestinare, e spero che prima o poi vi verrà chiesto di renderne conto. E non è l'argomento, il problema: il problema è l'espressione, non l'argomento.
Così, ogni volta che qualcuno scrive che il mare è fatto di tante gocce, Dio mio!, vorrei prenderlo e affidarlo alla cura Ludwig, bombardandolo di when I look into your eyes, di ascolta il tuo cuore, di cambieremo il mondo, di tutte quelle frasi per le quali mi piacerebbe che le penne esplodessero, che i computer si formattassero da soli per la vergogna, per la mia vergogna.
A meno che gli autori non agiscano consapevolmente, mossi magari da meri motivi pecuniari, o da malcelati istinti goliardici, ma allora perché non musicare, invece di tante abiezioni, un innocuo nonsense?
Era cerfuoso e i viviscidi tuoppi ghiarivan foracchiando nel pedano...
Non cantate la Luna, i tramonti, l'amore, e soprattutto non fate quelle espressioni sofferenti e partecipi, perché sono io, io, che soffro, che mi sento accartocciare, e non mi basta una sonata di Corelli, devo cercare qualcuno che mi tolga la nebbia dai pensieri, dopo aver sentito certe cose.
E questo non è classismo?


Ma io vorrei essere un'aquila
vedere il piano del mondo
che inclina verso di noi
lanciarmi a inseguire il tuo deserto
e i poteri solenni
e le leggi che si inchinano
e le porte dorate

Cominciare di nuovo il viaggio.

lunedì 15 giugno 2015

L'operaio sardo, mio padre e io

Oggi mi sono resa conto che sono poche le sensazioni fisiche di cui ho memoria. Tra queste, una risale a un giorno di primavera inoltrata di qualche (ehm...) anno fa, un giorno di primavera poche settimane dopo la mia laurea.
Era stato allestito un cantiere vicino a casa mia, e mio padre mi aveva descritto la perizia con cui veniva eseguita da alcuni operai, uno in particolare, la saldatura dei blocchi che avrebbero alla fine composto la conduttura complessiva. Nonostante questo tipo di attività non fosse, e non sia tutt'ora, il mio pane quotidiano, mi aveva proposto di andare con lui a vedere l'accuratezza che accompagnava lo svolgimento di questo lavoro. Così facemmo, tanto il cantiere era aperto e si potevano avvicinare anche due non addetti ai lavori quali noi eravamo. Arrivati, capii subito che nei giorni precedenti mio papà aveva avuto modo di attaccar bottone con i tre uomini che stavano lavorando, dato che tutti ormai si davano del tu. Dei tre, due avranno avuto poco meno di quarant'anni, mentre il terzo, che aveva da tempo passato la cinquantina, era evidentemente non solo il più esperto, ma anche quello che veniva chiamato per rifinire passaggi e punti particolarmente delicati. Il maestro. Un ometto minuto, dall'incarnato olivastro e dallo sguardo simpatico, sveglio, sicuro. Non ricordo il suo nome, ricordo solo che mi disse da dove venivano, e che erano stati chiamati apposta per fare quel lavoro. L'imperscrutabilità delle frasi che si rivolgevano tra di loro era una prova evidente della loro terra d'origine.
Non avevo e non ho tutt'ora le competenze per poter davvero afferrare se e quanta e quale dovesse essere l'abilità di quell'uomo; ciononostante vedere come muoveva le mani, più che a una saldatura faceva pensare a un cesello, o a quei rammendi invisibili fatti da certe ricamatrici degne eredi di Aracne. Era come vedere un pianista senza ascoltarne la musica, che importanza hanno le note quando già solo i movimenti delle dita sui tasti sanno essere arte?
Mi spiegò che stava usando un elettrodo in tungsteno che permetteva di portare a fusione i pezzi da unire, mentre un soffio di argon contrastava l'ossidazione; mi disse che il procedimento si sarebbe potuto fare apportando o meno del metallo, e che se avessi preso la maschera di uno degli altri due suoi colleghi avrei potuto vedere come si svolgeva il tutto. Mi diedero una maschera e osservai questo piccolo pianista al lavoro. Quando si fermò, mio papà gli disse che mi ero appena laureata in ingegneria.
Quello.
Quello fu il preciso momento in cui avrei voluto sparire. Fisicamente, smaterializzarmi, il mio corpo mi era di troppo, ma è impossibile spiegarlo, non si può.
Forse perché, come una signorina Vinrace, invidio tutti, tutti coloro che fanno le cose, anche se perfettamente assurde, meglio di me, o forse perché sapevo già quale sarebbe stata la reazione dell'uomo che avevo di fronte, sempre la stessa, come infatti fu, però io non la volevo sentire, non volevo esserci, non di nuovo.
Ma era solo primavera, e non c'è che una stagione, ed è l'estate.

domenica 14 giugno 2015

L'altalena

Ogni zia dovrebbe accompagnare il proprio nipote al parco giochi. Ogni brava zia dovrebbe fare anche un sacco di altre cose, ma non so farle.
Ogni zia dovrebbe accompagnare il proprio nipote al parco giochi, anche se lì c'è quell'altalena dove

sette
anni
fa

ti confidai che avevo la nausea.
Mi dicesti che era stato a causa della nausea che avevi fatto un grosso errore, decidendo di iscriverti a Economia.
Capii che avevi capito, e lo capisti anche tu.
Ora, dopo sette anni, di me, di te, della nausea, non è rimasta che 

l'altalena.

mercoledì 10 giugno 2015

La sveglia del destino dei vecchi

C'è un proverbio africano, ma per quel che ne so potrebbe anche essere una frase detta dal solito anonimo, o anche da un altro anonimo, non proprio il solito, o anche da qualcuno di illustre e famoso e degno di essere assurto nella cerchia degli uomini, insomma c'è questo proverbio africano che dice che una persona può alzarsi anche prima dell'alba, ma il suo destino si sarà comunque alzato un'ora prima. Ammettendo che sia vero, si possono trarre diverse conclusioni: per esempio mi vien da pensare che allora tanto vale stare a letto un altro pochino, oppure che non mi piacerebbe certo essere il destino, soprattutto non mi piacerebbe essere il destino di coloro che si alzano molto presto la mattina, tipo i pendolari che debbano fare molta strada, i panettieri, i turnisti... i vecchi. Sì, i politicamentenoncorrettamente vecchi.
Nella via dove abito c'è, a pochi metri dal mio condominio, un poliambulatorio che apre alle sette e mezza di mattina. Per andare al lavoro in genere esco più tardi, ma da qualche settimana a questa parte ho preso l'abitudine di farmi una corsetta mattutina, a causa della quale passo davanti al poliambulatorio in questione poco dopo le sei e mezza. E ogni giorno, puntuale come il tristo mietitore, una decina di vecchi è già in postazione davanti alla porta d'ingresso (evidentemente ancora chiusa), pronta ad accaparrarsi i primi numeretti del famigerato eliminacode a chiocciola.
Così ogni mattina passo di lì, grondante in canotta, li vedo con i loro golfini blu abbottonatissimi, e mi chiedo quanti caffè si sarà già bevuto, il loro destino.

martedì 9 giugno 2015

Il mio amico George (19)

Dato che a giorni ci sarebbe stato il compleanno di un amico comune, George e io stavamo pacificamente gironzolando per il centro in cerca di un regalo.
"Ti ricordi", mi apostrofò all'improvviso, "quel libro che..."
Certo, era di McEwan, stavo per rispondergli
"...mi prestasti tempo fa, quello dove..."
...dove c'era una bambina che temeva il momento in cui..., avrei voluto interromperlo
"...c'era una bambina che si sentiva responsabile, al momento di aprire un regalo, dei sentimenti di coloro che glielo stavano donando? Beh, mia cara, sarà che sto diventando un ferrovecchio, emotivamente parlando, ma mi accorgo che ultimamente è così anche per me. Il mese scorso mia cugina mi ha regalato un brucia essenze che, credimi, non avrebbe passato alcun esame di buon gusto ma, lo sai, lei ha tre bambini e probabilmente ha dovuto fare i salti mortali per trovare il tempo di prenderlo, o forse un modello più elegante sarebbe costato troppo, oppure... Non ha importanza. No, non ha importanza, credimi, è solo che quel brucia essenze, beh, era davvero brutto, e... Ho provato una tenerezza, nei confronti di lei, come non avevo mai provato".
Ovviamente, dopo questa confessione, non fui più in grado di scegliere alcunché, per il regalo che avremmo dovuto fare, e delegai la questione al mio caro ferrovecchio. Emotivamente parlando, s'intende.

mercoledì 3 giugno 2015

Un tram che si chiama Imbarazzo

Diciotto.
I minuti di percorso in tram che separano la fermata sotto casa da quella della stazione dei treni sono diciotto. E quei diciotto minuti decido spesso di trascorrerli in piedi per evitarmi l'annoso problema dell'alzarmi per cedere il posto ad altri. Facciamo che il posto non lo prendo fin dall'inizio, e tutto diventa più facile, non devo star lì a ogni fermata a valutare l'età media di tutti coloro che entrano, i loro acciacchi, le loro gravidanze e così via. Salgo, cerco un punto di appoggio e, lungi dal sollevarci il mondo, mi ci appoggio. In piedi.
Prima provavo a fare attenzione agli anziani e alle donne in evidente stato interessante, e sia chiaro che con evidente intendo davvero evidente, diciamo dal nono mese in poi, ché la gaffe si acquatta, pronta a spiccare un balzo felino ruggendo un terribile "Ma non vedi che è il taglio del vestito, cretina!"
Ero arrivata a ipotizzare un codice di colori, una scritta in fronte, magliette, magliette per tutti, con uno stato tipo "Hey there! I'm using my old age""Non sono gonfia, sono in 18 settimane""Solo posti solidali al senso di marcia", e così via.

Lunedì scorso, in quei diciotto minuti, due scene imbarazzanti.
Scena numero uno: sale una signora anziana, piccoletta, con bastone, un po' impacciata nei movimenti, e la simil-quarantacinquenne seduta vicino al mio punto di appoggio scatta in piedi come una molla.

"No ma non serve grazie, sto in piedi."
"Ma signora, scherza?, si sieda lei!"

"No, davvero, grazie, preferisco così."
"Ma ci mancherebbe altro!"
"Guardi... Ho problemi a sedermi. Purtroppo devo stare in piedi..."
"..."

Un nume pietoso avrebbe fatto calare un sipario, ma evidentemente il nume in questione o non aveva un sipario a portata di mano, o non si sentiva pietoso, o era in altre faccende affaccendato. La simil-quarantacinquenne si siede nuovamente e scende alla fermata successiva, non si sa se perché era effettivamente arrivata o perché aveva il biglietto solo per sé, ma non per il proprio disagio.

Scena numero due: entra un presunto sessantacinquenne, e una signora dall'età non pervenuta (diciamo che non era adolescente, via), sorridendogli, si alza.

"Ma no, grazie..."
"Ma si immagini, io sono più giovane!"

Nella mia immaginazione si stava facendo buio su tutta la terra. Stavo cominciando a sudare, il mio sistema neurovegetativo non sopporta certe scene. D'altro canto ero anche pronta a godermi la scena munita di apposito secchiello di pop-corn, magari cercando di evitare gli schizzi di sangue che sarebbero sicuramente seguiti. E invece, colpo di scena!, il presunto sessantacinquenne sorride, ringrazia, si siede, e non fa scorrere sangue.
Ripongo i miei pop-corn e penso che tutto dipende dal fatto che si trattava di un uomo. Forse.

E, finalmente, la stazione.