martedì 31 marzo 2015

E poi...

Non ricordava dove avesse messo l'ombrello, ma quella mattina pioveva davvero a dirotto
rimbombò, rimbalzò
e non sarebbe riuscita a fare neanche la breve strada che la separava dalla fermata dell'autobus senza ritrovarsi zuppa
rotolò cupo
dalla testa ai piedi.
L'ombrello, l'ombrello, maledizione,
e tacque
e poi rimareggiò rinfranto
era anche in ritardo, tanto valeva infilare un cambio nella borsa e consolarsi pensando alla felicità degli smemorati, dimentichi del mondo, di loro stessi, 
e poi vanì
del mondo, di loro stessi, dei loro errori.


lunedì 16 marzo 2015

Ci si spoglia, si leva l'àncora

Forse nasce tutto dalla mia paura del buio, disse al tizio che, se n'era accorto, lo guardava di sghimbescio dallo specchio mentre si preparava a fare il quotidiano nodo alla cravatta. Con la coda dell'occhio osservava quella pioggia di fine inverno, quasi un post scriptum, dalla finestra gli ombrelli si lasciavano ammirare come da un acquario, fluttuanti come meduse che si gonfino e sgonfino al ritmo del cammino di chi li teneva in mano.
Incrociare, scivolare, riportare la gamba sulla gambetta, che nomi ridicoli si danno agli indumenti, pensava mentre le mani si muovevano meccanicamente, e poi ancora infilare nell'anello, tirare, aggiustare fino all'ultimo bottone del collo.
La sera, finalmente, la sera l'avrebbe tolta.

martedì 10 marzo 2015

Il mio amico George (12)

"Ti ricordi l'ultima volta che abbiamo visto il mare?", mi ha chiesto George stasera, davanti a una birra imprevista.
Se me ne ricordo!, pensavo che qualcosa di cui non mi ero resa conto gli avesse fatto prendere un colpo, era immobile da un pezzo, e invece era solo che stava pensando a...
"...come potrei mai descriverlo?, è questo il pensiero che mi blocca, come fai a spiegare cos'è la pasta a qualcuno che non sa nemmeno cosa sia la farina?"
Ho dovuto ammettere che non lo stavo seguendo, non capivo a chi e perché dovesse descrivere cosa.
"Oh, è semplice, è estremamente semplice, basta che provi a riflettere su quale sia la differenza tra un poeta, o insomma tra uno che sa usare le parole, e uno che non ne sia in grado, hai presente quei patetici tentativi da parte di dilettanti che ti fanno solo pensare Amico mio, è meglio se parli come mangi? Vorrei avere questo, vorrei saper trasformare il pensiero in sentimento e il sentimento in pensiero, senza scivolare nel ridicolmente penoso, ma non saprei da che parte iniziare".
Forse cominciavo a capirlo, o almeno così credevo. Solo non vedevo cosa c'entrassero il mare e la farina.
"Credimi, è semplice, lo è davvero. Me ne parlasti tu, anni fa, citando il prodigio austriaco: "Non so scrivere in modo poetico: non sono un poeta. Non so distribuire le frasi con tanta arte da far loro gettare ombra e luce: non sono un pittore". E poi continuava, lui. "Non so nemmeno esprimere i miei sentimenti e i miei pensieri con i gesti e con la pantomima: non sono un ballerino". Fin qui potremmo dirlo anche tu e io, no? Nè tu né io siamo pittori, poeti o ballerini. Il finale però ci allontana. "Ma posso farlo con i suoni: sono un musicista".
Noi no, io no. E in verità non è poi tanto un problema di descrivere il mare, o il brusio dell'aria al crepuscolo, o il via vai di volti, piuttosto il nodo è in come descrivere... In come scegliere le parole senza poi pensarne Mio dio, cos'è questo orrore!, capisci ora? Trovare la valvola, senza avere quella sensazione di montagne russe che salgono, salgono, salgono, e più salgono e più ti aspetti una discesa paurosa, e vorresti che la salita non finisse più perché ormai è troppo tardi per affrontare la discesa, fa troppa paura, ma continuare a salire è da folli".
Sì, adesso avevo capito. Riesce sempre a spiegarsi, George.

lunedì 9 marzo 2015

Miopia a colori

Ero la persona più miope che conoscessi. Magari dipendeva dal fatto che non mi preoccupavo, come prima cosa, di chiedere la capacità visiva di tutti coloro che incontravo, forse se mi fossi interessata di più alla questione avrei scoperto che ero in realtà circondata da gente messa ben peggio di me.
Fatto sta, ero la persona più miope che conoscessi.
Non che ne facessi un motivo di vanto, anzi, devo riconoscere che gli svantaggi erano parecchi. Potrei farne un breve (?) elenco, ma mi basta ripensare a quando, tipicamente nei bagni delle camere di albergo, dovevo prima controllare dove fossero rubinetti e portasapone. Capito questo, e solo allora, potevo togliermi gli occhiali e farmi la doccia.
Solo una cosa mi divertiva, in tutto il mio essere così tanto miope: a natale, le luci colorate degli alberi. A casa, al buio, la sera, lasciavo accese solo le luci dell'albero, che guardavo senza occhiali. Ciascuna di quelle piccole lampadine diventava un cerchio molto più grande, e molto più sfocato, di quanto in realtà non fosse, talmente più grande che ogni luce si sovrapponeva a quelle vicine, creando macchie e colori che vedevo solo io.

venerdì 6 marzo 2015

Il mio amico George (11)

Ieri, una di notte, e Morfeo non ne voleva sapere. Non mi innervosisco, in questi casi, niente lotte tra me e le lenzuola, prendo la cosa come viene, e penso alla teoria di caffè che popoleranno la mia giornata successiva. Se me ne ricordo, magari, provo a chiamare George, in genere siamo sincronizzati, nelle nostre sporadiche notti insonni.
Ieri, manco a dirlo, lo eravamo. Nel giro di un paio di squilli già mi aveva risposto.
"Dammi un secondo che recupero gli auricolari, ti dispiace?, così riesco a continuare a montare la scarpiera nuova". All'una di notte. Sta messo peggio di me. Sento che si allontana, canticchiando distratto ...ho bisogno di gelarmi e poi bruciare... e intanto penso che io ho bisogno di dormire, anche se c'è più fascino nel gelarsi e bruciare.
In quella mi accorgo che ho quasi esaurito la batteria del telefono, che adopero anche come sveglia, e che ho dimenticato in ufficio il caricabatterie.
"Non vedo dove sia il problema, domattina passo sotto casa tua e ti tiro sassi alla finestra. Alle sette e mezza va bene? Tanto, il pensiero a cui ti allacci sarà già sveglio da un paio d'ore. Per quello temo di non averne, di sassi".

martedì 3 marzo 2015

Pane, amore e burocrazia

R: ed io condividiamo, per ammissione comune, un pesante handicap: l'incapacità di gestire in modo ordinato e rintracciabile qualsiasi documento cartaceo che abbia anche lontanamente a che fare con la burocrazia, dalle ricevute delle bollette agli esami medici, passando per le carte della revisione della macchina, quelle della banca e per... Insomma, qualsiasi cosa.
L'altro giorno ragionavamo sul fatto che probabilmente finiremo sotto un ponte perché tra una ventina d'anni un diligente funzionario statale ci verrà a chiedere se nel 2004 avevamo pagato quella risibile imposta allora ammontante a euro 12, e noi ci chiederemo di cosa starà parlando, e nel frattempo il Paese tutto intorno a noi si affaccerà dalle finestre sventolando con fare saccente le ricevute diligentemente conservate nel faldone blu sullo scaffale a destra, mentre noi due ci ritroveremo con tanti di quegli interessi e more maturati nel corso dei decenni che ci verranno pignorati la casa, l'auto, il diritto di cittadinanza e il conto in banca.

Perdo carteÈ frustrante. Voglio dire, non sono una persona particolarmente stupida, so completare un Bartezzaghi in relativa scioltezza e fare un sacco di altre cose degne di un essere umano mediamente dotato, eppure con ciò che riguarda la documentazione cartacea di un qualcosa a caso è come se una bordata di totale stupidità mi si scaraventasse addosso, e rimango segretamente convinta che Colei che ormai da qualche anno riesce ad occuparsi, nonostante me, della mia dichiarazione dei redditi possa essere considerata a pieno titolo in odore di santità.

Eppure basterebbe così poco, alcuni faldoni colorati, uno per i documenti relativi al lavoro, uno per le ricevute mediche, ... E lo so, lo so, sarebbe una tecnica efficacissima, nella sua semplicità, ed è quella che avevo adottato dopo il primo trasloco. Proposito e tecnica andati ahimè perduti dopo il trasloco successivo, quando nello spostare e riorganizzare masserizie e suppellettili ho ben pensato di unire tutte le cartelle in un unico raccoglitore, che si è in seguito rivelato completamente inutile. O meglio, la buona volontà c'era, solo che l'utilità risultante era paragonabile a quella di certe prove di evacuazione che si facevano al liceo, fatte per testare la capacità di gestire l'imprevisto, ma in realtà organizzate nei minimi dettagli "suoneremo la campanella di allarme alle 10.40, così poi state direttamente in cortile per la ricreazione". Gente che si attardava per recuperare i cracker con cui uscire, per evitare la noia di dover rientrare in aula a prenderli, professori che trattenevano classi intere perché tanto è solo la simulazione, scene senza senso, e in quanto tali adorabili.
Ma tornando alla frustrazione del mio perdere costantemente i pezzi... L'ultima volta in cui ho creduto di aver perso un documento (non dico cos'era per salvaguardare quel minimo di dignità a cui mi aggrappo ostinatamente) è stato venerdì scorso, e attendo con rassegnazione la prossima volta, come se nulla potessi contro l'entropia che tanto si accanisce con le mie scartoffie.
La breve antologia imprecatoria che in genere accompagna questi momenti può essere appesantita da un'ulteriore circostanza aggravante, che consiste nel perdere il documento in questione a casa dei miei genitori. Con tempi di reazione degni di un centometrista, mia madre fa il proprio ingresso a gamba tesa con la domanda di rito: "Hai perso qualcosa?"
Sì, santo cielo, sì, sì, ho perso qualcosa, sennò perché continuerei ad aprire e chiudere cassetti in modo compulsivo?
Ovviamente questa non è la risposta che esce dalle mie labbra. La tecnica che adotto in genere prevede invece un nebuloso "Bah, sì, più o meno", evidentemente volto a guadagnare tempo. Come se una cosa la si potesse perdere più o meno.
Con spietata puntualità, arriva la solita sconsolata constatazione materna: "E pensare che da piccola eri così ordinata..." Sì, da piccola ero così ordinata, però da piccola non dovevo compilare il 730, né pagare l'assicurazione dell'auto, né tenere le ricevute della farmacia o...
Errore. Inspirare. Espirare. Cambiare tattica. Impianto di fonazione chiama circuiti cerebrali, stiamo interagendo con esemplare materno, urge l'adozione di un avvilito tono di autocommiserazione: "Sì, beh, accidenti, certo che aver cambiato casa tre volte in un anno non mi aiuta..." Perfetto, ha funzionato. Non è stato nemmeno necessario aggiungere in coda un "povera me!", bloccato sul nascere dal mio dannato senso del pudore.
Arrivati a questo punto in genere mia madre, come peraltro fa la madre di R:, comincia a snocciolare tutta una serie di improbabili anfratti in cui dovrei senz'altro cercare, dalla libreria in camera da letto a sopra il frigorifero (luogo magico in cui si nascondono chiavi, monetine, accendini e, toh!, cosa ci fa qua la fotocopia della patente?) a, chi può dire?, il vaso dei biscotti.

Mentre scrivo è rientrata R:. Ha perso dieci euro.
Ci salvi chi può

lunedì 2 marzo 2015

Dulcis in fundo

Stava camminando, Francesco, verso il solito ristorante dove aveva preso l'abitudine di cenare ogni giovedì. All'appuntamento settimanale andavano aggiunte tutte le volte che gli capitava di invitare qualcuno a cena. Forse perché troppo poco sicuro che le proprie abilità ai fornelli sarebbero state all'altezza di un qualsiasi ospite, preferiva affidarsi alla cucina di quel bonario perfezionista che era il proprietario, e ai consigli di Angelo, il cameriere, con il quale condivideva un'amicizia che durava dai tempi delle superiori. Il giovedì era il giorno in cui, ogni settimana, doveva allungare la strada del ritorno per passare a consegnare i soliti documenti firmati e controfirmati nella filiale che era stata aperta l'anno prima; questo significava una sessantina di chilometri in più, quel tanto che bastava per farlo arrivare a casa privo di qualsiasi voglia di mettersi a cucinare qualcosa. Se si aggiungeva poi che nella sede distaccata gli toccava puntualmente sorbirsi le inutili e tediose chiacchiere della segretaria, si può facilmente comprendere perché Francesco vedesse nella cena al ristorante una sorta di piccolo risarcimento danni.
Mentre si dirigeva, dunque, verso la proprio ricompensa settimanale, incrociò sotto i portici il signor Oreste, il proprietario del locale. Lo riconobbe appena, tanto camminava infagottato nel cappotto e nella sciarpa che aveva avvolto coprendosi quasi completamente il viso. Il passo deciso da soldato era però inconfondibile, e quando furono vicini fu Oreste il primo a salutare, fermandosi per spiegargli che se rincasava prima del solito era solo perché la febbre stava avendo la meglio su di lui (a giudicare dagli occhi, quegli occhi vagamente impenetrabili che non si staccavano mai dal volto di chi stava loro di fronte, avrà avuto per lo meno trentanove, forse di più), ma si raccomandava "di farsi portare il dolce che prendi di solito. Francesco, penso che qualcuno dei ragazzi in cucina abbia sbagliato qualche dose, qualche ingrediente, una proporzione, non lo so, ma... Credimi, non riusciremo mai più a fare una cosa del genere. Ho raccomandato ad Angelo di tenertene da parte una porzione, non deve succedere che tu te lo possa perdere".

E poi, a cena ultimata, accadde l'inspiegabile.
Francesco chiese ad Angelo quella che gli era stata preannunciata come una irripetibile meraviglia, ma con sua dolorosa sorpresa il cameriere si fece improvvisamente distaccato: "Questa sera non ce l'abbiamo. Ti posso portare qualsiasi altro dolce, ma oggi questo non siamo riusciti a farlo".
Non fu il tono categorico a far morire in gola a Francesco qualsiasi domanda. Avrebbe potuto raccontare ad Angelo l'incontro che aveva avuto con Oreste, dirgli che sapeva che il dolce non solo era stato preparato, ma che era stato anche messo da parte apposta per lui. Avrebbe voluto chiedergli il motivo di quel gelo, avrebbe saputo... Ma si fece solo portare il conto, e se ne andò a casa, a sfinirsi di musica.