mercoledì 24 settembre 2014

Il mio amico George (9)

"Cosa c'è di più fastidioso delle definizioni come queste, mi domando. Nove verticale: Cocciuto, testardo. Potremmo star qui fino a domani, maledizione, sai quanti sinonimi mi sono già venuti in mente..."
A lamentarsi in questo modo era George, al solito, mentre tentava di risolvere non so quale cruciverba senza schema a gruppi di lettere variabili, con le definizioni mescolate e il cielo sa quale altra diavoleria per rendere complicato un modo per ammazzare il tempo.
Ammazzare il tempo, una locuzione che è meglio non usare se si sta parlando con lui, a meno di non volerlo infastidire più della definizione al nove verticale. Specie in questi giorni. Cos'abbia, ultimamente, io stessa fatico a comprenderlo, forse è solo particolarmente infastidito dalle proprie manie di grandezza, che a intervalli irregolari tornano a fargli visita, fatto sta, l'ho visto saltare come una molla l'altro ieri, al bar dell'ospedale, nel sentire un tizio che parlava al telefono con l'interlocutore di turno, spiegandogli che stava, per l'appunto, ammazzando un po' il tempo nell'attesa che chiamassero sua moglie per non ricordo più quale visita medica.
"L'hai sentito? Questo qui cerca di ammazzare il tempo! Mio dio... Ma guardalo, quanti anni avrà? Quali che siano, ha evidentemente un piede nella fossa, e invece di viverselo, il tempo, lo vuole ammazzare. Ah, lo so benissimo che è un modo di dire e basta, ma non è vero, usiamo le parole, e non guardarmi così, so che te l'ho già detto mille volte, usiamo le parole a caso. E magari è lo stesso tizio che ti ritrovi alla cassa veloce del supermercato, e che ti si muove attorno come un avvoltoio che compia cerchi concentrici sempre più stretti, per cercare di passarti avanti e recuperare una manciata di decine di secondi".
Povero George, mi dispiace, e molto, vederlo tormentarsi tanto per lo scorrere del tempo e del reale. Ma d'altronde è stato lui stesso, una volta, a confidarmi che la sua vita era un continuo compromesso tra la mediocrità del quotidiano e l'intensità dei suoi sogni.

lunedì 22 settembre 2014

A fari spenti nella notte

Come se fossi un personaggio del film di Mary Poppins, ho spesso l'impressione di cascare dentro agli stati d'animo così come lei saltava dentro ai disegni che Bert tracciava per terra con i gessetti colorati. Un salto ed è tutto un acquerello emotivo a sfumature leggere, tinte pastello che faccio appena in tempo a percepire perché prima che me ne renda conto mi ritrovo a essere caduta dentro a un quadro fauve, selvaggio e insopportabile per la forza dei colori.
Mary Poppins ne usciva al primo acquazzone che lavasse via forme e disegni, solo che lei era perfetta, sotto ogni punto di vista.

mercoledì 17 settembre 2014

Irrimediabilmente

La verità è che mi manchi.
Maledizione, tra un paio di mesi sarebbe il tuo compleanno, e invece niente, non posso neanche telefonarti. Ma ora il mio problema non è che non dovrò chiamarti tra due mesi, ora il punto è che non posso chiamarti adesso, anche se saresti la persona giusta a cui raccontare l'ennesimo colpo irrimediabilmente mancato. So anche che saresti forse addirittura capace di convincermi che non avrei motivo di sentirmi in imbarazzo per la mia incapacità di centrare qualsiasi bersaglio, anche il più apparentemente banale e vicino (o forse era una questione di prospettiva?).

domenica 14 settembre 2014

Dulce mel Musarum

Col dolce e biondo liquore del miele i medici cospargono, tutt'intorno, gli orli del bicchiere prima di dare il ripugnante assenzio ai fanciulli.
Ricordo la professoressa di latino che ci spiegava Lucrezio e il suo mettere in versi, per renderle meno difficili da accettare, le verità della dottrina di Epicuro. La poesia, il dolce miele delle Muse, fa presa sull'animo, e sull'animo come miele si appiccica.
Ma per l'animo che si stia perdendo e non sia all'altezza delle proprie ambizioni, per quell'animo tutta la dolcezza della poesia, per un equivoco di consonanti, diventa l'amarezza del fiele.

mercoledì 10 settembre 2014

A caso

Aveva finito la nifedipina, così quel sabato mattina Sergio uscì di casa per andare alla solita farmacia del quartiere. Pioveva, decisamente troppo per andare a piedi. Forse per i molti recenti pensieri sull'opportunità di organizzare il trasloco, forse perché l'autoradio stava passando una canzone di dieci anni prima che lo aveva fatto scivolare a ricordi che credeva irrimediabilmente sepolti, forse perché così doveva andare, alla rotonda di corso Mazzini non girò a destra come avrebbe dovuto, ma proseguì dritto, seguendo automaticamente la strada che tutti i giorni percorreva per dirigersi al lavoro. Se ne rese conto quando ormai avrebbe avuto poco senso invertire il verso di marcia, specie in quel dedalo di cantieri e sensi unici provvisori. Decise quindi di proseguire fino alla farmacia successiva, in fondo ricordava bene che ogni mattina, pur non prestando loro attenzione, vedeva più di un'insegna con la croce verde luminosa lungo la strada che lo portava all'ufficio. Come previsto, di lì a nemmeno un chilometro ne scorse una su un edificio sulla destra. Trovare un posto per l'auto non fu difficile, a quell'ora del mattino. E con quel tempaccio, poi, a chi poteva venire l'idea di uscire di casa?
Mentre ancora stava salendo i gradini che portavano all'ingresso della farmacia, le porte scorrevoli si aprirono per lasciar uscire un cliente, un uomo più o meno della sua età, che egli ebbe giusto il tempo di guardare in faccia e accorgersi che assomigliava davvero molto a...
- Sergio?
- Davide!
- Ma non ci... Ma pensa te! Come stai?
- Che storie... Anche tu ti sei trasferito qui a...
- Ah, no, no, figurati, vivo sempre a Livorno, sono solo venuto a passare il finesettimana da mia sorella, che stava per finire il latte in polvere, sai com'è, ha avuto...
- Ma dai! Sei diventato zio!
- Eh sì, sai com'è...
- Già.
- Già.
- ...
- E tu...?
- ...quindi passi per di qua spesso?
- Ah, no, in realtà è un caso che sia qui...
- In realtà è un caso che sia qui anche io, sarei dovuto andare a... Beh, lasciamo perdere. Senti ma hai tua sorella che aspetta che le porti il latte?
- Eh? Ah, il latte! Sì, beh, in effetti mi ha fatto uscire a quest'ora infame solo perché...
- Ehi, c'hai un nipote a casa che ha fame, meglio se ti dai una mossa! Che caso trovarti qua, però!
- Già, che caso...
- E tutto perché l'autoradio...
- L'autoradio? No, no, sono venuto per mia sorella!
- Sì, no, scusa, pensavo a cose mie. Vabbè, Davide, a presto.
- A presto?
- A caso.

lunedì 8 settembre 2014

Magnifiche assenze

A volte il destino cinico e baro (o la sorte, o il caso, oppure in mancanza d'altro anche un aneurisma aortico può andar bene) ci costringe ad allontanarci più o meno definitivamente da persone con cui avremmo preferito condividere ancora tanta parte del nostro tempo.
Altre volte, invece, il destino di cui sopra (senza dimenticarne le eventuali alternative) ci toglie graziosamente di torno dei piombi che mai avremmo voluto ci accompagnassero nemmeno nelle circostanze più brevi e insignificanti.
Solo che mentre la prima situazione è tale per cui ci si accorge di stare perdendo qualcuno di importante, e giù lacrime e malinconia e buffi progetti e promesse di ci rivediamo presto, nel secondo caso per lo più non ci si accorge nemmeno dell'immenso regalo di cui ci viene fatto dono.
Qualche anno fa mi capitò di trovare una ragazza che avevo conosciuto per meri motivi di condivisione dello stesso tetto durante uno dei miei periodi scolastici (tutto questo ridicolo giro di parole solo per non dire se abbiamo fatto assieme l'asilo, le elementari, le medie, il liceo o l'università, e se le abbiamo fatte effettivamente nella stessa classe o solo nella stessa scuola). Il destino (o, insomma, quel che è) si era premurato di far divergere la linea della vita di lei rispetto alla mia, peraltro senza che io me ne fossi mai resa conto. Insomma, durante quel nostro casuale unico incontro mi chiese cosa stessi facendo. Di fronte a domande di questo tipo tendo a essere sincera, ma una voce dentro di me mi stava scongiurando come da in fondo a un pozzo di non farlo, di fingere afasia, amnesia o qualsiasi cosa facesse rima con tecnica per scappar via, purché la rima non prevedesse la risposta corretta, dottorato in bioingegneria.
Mi rendo conto che il mio atteggiamento può sembrare estremamente arrogante e snob. Va detto però che mi trovavo di fronte a una di quelle persone che, durante un dialogo, hanno il maledetto vizio di terminare l'ultima parola di ogni frase del loro interlocutore. Tipo quando a scuola, durante un'interrogazione, non si sapeva la risposta, il prof di turno, scocciato, la diceva al posto del meschino impreparato, e quest'ultimo si aggrappava alla speranza di dimostrare che il Sapere ce l'aveva sulla punta della lingua.
- Ma insomma!, almeno sapere che Il cinque maggio è dedicato alla morte di Napol...
- ...oleone!
Imbarazzo. Si tratta di un vizio che sopporto meno ancora dell'essere toccata sull'avambraccio da qualcuno che mi stia spiegando qualcosa. Ecco, chi volesse farmi impazzire (o infangare la mia fedina penale) sommi le due cose: il tocco sull'avambraccio e l'eco sull'ultima parola.
Errore su errore, non fui così pronta da dire undottoratoinbioingegneriaetu?, ma le lasciai il tempo di incalzarmi chiedendomi cosa facessi, durante il mio dottoratoinbioingegneriachebello. Ricordo ancora la sensazione, mentre le farfugliavo una risposta poco convinta: sapevo che avrei anche potuto dirle una frase priva di qualsiasi valore semantico, che ne so?, qualcosa del tipo Ma niente, studio quale debba essere il diametro ottimale di una lancetta di un tramezzino in modo che il bucato venga fuori particolarmente croccante quando fuori la temperatura scende sotto i dodici metri verdi, e lei avrebbe detto -etri verdi continuando ad annuire in modo esagerato per tutto il tempo.
Perché mi è venuto in mente questo episodio? Mah, forse perché il destino mi sta velatamente ricordando che ogni tanto dovrei ringraziarlo.
Sempre che si limiti a essere destino e non un aneurisma aortico.