domenica 19 maggio 2013

Ermete, o delle ombre

Si chiamerebbe Ermete.
Non Ismaele, né Toby, e nemmeno Pietro.
Si chiamerebbe Ermete se esistesse, e se esistesse sarebbe un cane, di media grandezza, il garrese le arriverebbe poco più in alto del ginocchio. Si porterebbero fuori a passeggiare e lui le farebbe la guardia, ma non nel senso di fare in modo che nessuno si avvicini a lei o alla loro casa. Farebbe la guardia perché ringhierebbe ogniqualvolta vedesse lei avvicinarsi a qualcosa. Ermete di Shalott.
E portandosi fuori a camminare, il mattino presto o poco prima del tramonto, lei non avrebbe motivi di preoccupazione, circondata dalla sola compagnia del cane, dell'ombra di lui, e infine della propria, di ombra, quella che lei amava osservare, così alta, sinuosa e assurdamente magra, con quelle mani che, ad aprirle, mostravano dita affusolate e lunghe.
Sarebbe Ermete a riconoscere in lei l'odore della paura tutte le volte in cui il dolore, quello fisico, tornasse di notte a farle silente visita, e le si avvicinerebbe giusto qualche istante prima che lei si prenda la mano nella mano, fingendo a se stessa che una delle due sia del padre, o della madre, o di Morfeo.
Il problema, tuttavia, non sta nella non esistenza di Ermete, ma piuttosto in quella di lei.

mercoledì 15 maggio 2013

Porte scorrevoli

Si sentiva così imperdonabilmente responsabile per quello che gli era successo, e come se non bastasse era convinta che anche lui la ritenesse in qualche imponderabile modo colpevole dell'evento. Se non fosse stata lei a insistere per quel caffè al bar (Veloce, lo so che hai fretta e il viaggio è lungo, ma almeno ci salutiamo con calma, e il bar è di strada verso il parcheggio, due minuti, per favore), lui sarebbe senz'altro partito prima, un po' prima, un intervallo di tempo forse irrilevante dentro una vita intera, ma fondamentale per non fare in modo che poi lui si venisse a trovare in quel punto dell'autostrada in quel preciso momento in cui una station wagon grigia decideva di sbandare e andargli addosso, facendolo finire malamente contro il guard rail. Nell'impatto si era rotto tibia e perone sinistri, aveva sfasciato un'auto non ancora completamente pagata e non era riuscito a raggiungere l'aeroporto per quel viaggio che avrebbe dovuto intraprendere e che aveva prenotato dopo tante riflessioni fatte assieme.
Sapevano, entrambi, che senza quel caffè lui sarebbe partito certamente prima, e non avrebbe mai incontrato la station wagon grigia.
Ciò che purtroppo non sapevano era che lui, senza quel caffè, si sarebbe trovato a sorpassare un furgone insolitamente lento, ma che durante quel sorpasso si sarebbe accorto che una vespa (sfecsofobia, gli aveva detto il medico?) stava tranquillamente camminando sulla sua cravatta mezzo slacciata. Non sapevano, purtroppo, che avrebbe avuto la solita patologica reazione che aveva sempre avuto in presenza di quegli insetti, non sapevano che avrebbe convulsamente slacciato definitivamente la cravatta per gettarla il più lontano possibile, e che nel far questo avrebbe tolto entrambe le mani dal volante e gli occhi dalla strada. Non sapevano che nell'universo sghembo dove loro due non avevano preso il caffè assieme lui sarebbe morto per un incidente stradale ben più grave di quello avvenuto a causa della station wagon grigia.
Non lo sapevano e non l'avrebbero mai saputo. E lei si sarebbe tenuta i propri immotivati sensi di colpa.

venerdì 10 maggio 2013

L'iperKubrick

Ci si procuri un interlocutore a caso, si inizi una conversazione altrettanto casuale e con abili strategie la si diriga verso un argomento a scelta tra musica, cinema, letteratura, arti grafiche e così via.
Arrivati a questo punto si nomini un esponente dell'arte scelta, e non un esponente a caso, ma un esponente famoso e difficile. Famoso, altrimenti l'esperimento non può nemmeno cominciare. Difficile, perché sarà questo il cuore della prova che si sta effettuando, la quale consiste nella classificazione dei tipi di giudizio che potranno venire espressi dalla nostra cavia. Si vedrà infatti che una catalogazione di tali tipi di giudizio può essere portata a termine con sufficiente dovizia utilizzando un numero relativamente ridotto di classi. In particolare, abbozzerei un'iniziale schematizzazione in quattro categorie. Sull'asse x si metta il livello di gradimento (due classi: positivo, negativo), e sull'asse y l'autenticità e la consapevolezza con la quale si esprime quel livello di gradimento (due classi: vere, finte). Dalle possibili combinazioni è banale ottenere una classificazione bidimensionale in quattro gruppi.
Facciamo un esempio: si prenda Kubrick. Oppure Bernhard.
Classe 1: piace, falsamente. Classico caso di coloro che o non hanno mai visto un film del primo o letto un libro del secondo, ma ci tengono ad avere gusti ricercati. È anche il caso di coloro che, benché nel segreto del loro cuore nutrano una sincera avversione per quella lunga agonia di incomprensione rappresentata da ogni, per quanto breve, successione di fotogrammi o di pagine, si atteggiano a fini estimatori di un artista osannato da tutti gli intellettuali bene (perché esistono anche gli intellettuali non-bene). In questo caso gli elogi saranno sperticati e iperbolici. Geniale e divino, giusto per fare un paio di esempi.
Classe 2: non piace, senza consapevolezza. Si afferma che Kubrick non piace perché ci si dichiara orgogliosamente ignoranti e/o pop e non si capisce l'arte moderna. Similmente, Bernhard non piacerà perché come si possono leggere lunghi monologhi dove spesso i flussi di coscienza e le ripetizioni la fanno da padroni?, che noia. Un po' il soggetto se ne vanta, perché così ha la possibilità di darsi arie da persona che non si dà arie da intellettualoide. L'aver o il non aver visto (letto) qualche film (libro) del suddetto autore è condizione non necessaria, anzi, completamente ininfluente.
In genere gli appartenenti alle due classi citate passano con disinvoltura dall'una all'altra in base all'idea che si son fatti delle persone con le quali stanno parlando.
Classe 2 bis: non piace, falsamente. Tipico del regista (scrittore) invidioso. Caso molto raro nel complesso dell'umanità, relativamente frequente nell'ambiente degli addetti ai lavori.
Classe 3: piace, veramente e consapevolmente. Classico comportamento dell'esemplare Kubrick (e dell'esemplare Bernhard). Ma non solo.
Classe 4: non piace, veramente e consapevolmente.
Le ultime due classi, benché così diverse, godono della mia totale stima. Per appartenervi è necessario aver visto (letto) una percentuale significativa di film (libri) di K. (di B.). A quanto ammonti la percentuale significativa è un dato ancora da stabilire. Ad ogni modo, coloro che appartengono alle Classi 3 e 4 molto difficilmente cambieranno bandiera, anche qualora si trovassero a parlare con Kubrick (Bernhard) stesso. O con Muccino (Fabio Volo).
Potremmo finirla qui, con due semplici variabili su un piano. Volendo però si potrebbe introdurre una dimensione aggiuntiva, un asse lungo il quale considerare la volontà di argomentare il proprio giudizio. Si otterrebbero pertanto otto classi schematizzabili in un cubo nello spazio tridimensionale.
Per affinare ancora di più la categorizzazione si potrebbe aggiungere un'ulteriore variabile, questa volta sull'asse w, data dalla veemenza con la quale si difende la propria posizione. Ecco ottenuto un ipercubo di lato due, e una suddivisione in sedici classi.
E a colpi di potenze di 2 arrivare a coprire l'intera umanità.
Una classe a sé però va citata: quella degli accentratori. Trattasi di coloro i quali riportano qualsiasi interlocutore nel mezzo del quadrato, cubo, o ipercubo in cui ci si trovi. Sono quei soggetti con i quali qualsiasi discussione mi risulta così demotivante che torno all'origine 0, e non mi si estorcerà mai la minima opinione su alcunché.

domenica 5 maggio 2013

Una e una sola

C'è, nel paese in cui vivevo fino a qualche mese fa, un percorso che ero solita fare spesso: partivo da casa mia e in poco meno di venti minuti arrivavo ai piedi di uno di quei bei colli che tolgono la monotonia a un orizzonte altrimenti fatto di noiosa piattezza. Da lì basta scegliere il sentiero che si vuole prendere, e si può continuare a camminare per ore, a volte senza incrociare anima viva. Ultimamente però trovavo spesso un cane, un bel golden retriever dall'aria affabile, accompagnato da un uomo di età stimata sulla sessantina. Per quella misteriosa legge non scritta secondo la quale se si incontra qualcuno, per quanto sconosciuto, mentre si sta passeggiando per una strada inclinata, montagna o collina che sia, ci si saluta (cosa che invece sul piano non succede), ogni volta ci salutavamo, così ho avuto modo di sentire che la voce di lui era insolitamente grave, e che nel breve arco di un Buongiorno riusciva a trasmettere (a trasmettermi) un rassicurante senso di autorevolezza.
A tutto questo ho avuto modo di pensare perché le volte in cui mi è successo di incontrarlo ero da sola. Ed è sempre l'essere da sola che mi fa ricordare, ogni volta che passo davanti a una certa casa, un episodio successo ormai una decina di anni fa, forse di più: stavo percorrendo proprio quel percorso in compagnia di Lamarta, e nel costeggiare una casa nel cui giardino c'era una voliera, una di noi due fece una battuta che ora non ricordo più, ma della quale ricordo gli esiti. Entrambe cominciammo a ridere di quel riso viscerale che per alcuni minuti sembra togliere il fiato ed essere destinato a non terminare più. Dovrei essere dispiaciuta del fatto che non ricordo cosa fu, a scatenare tante risate, chissà se c'entrava la voliera, la casa, il proprietario... In realtà se anche mi ricordassi ogni singola parola detta, qui, adesso, non ne riderei più allo stesso modo.