lunedì 22 aprile 2013

Ghosts in translation

Un giorno, a spanne qualche milione di anni fa se la memoria non mi tradisce, stavo pensando a come era successo che avessi conosciuto una persona, e andando indietro indietro indietro fino a cercare l'impossibile primo evento che aveva innescato tutti i successivi, mi sono trovata a perdermi in un gioco divertente che poi ho ripetuto per altri avvenimenti, ossia il costruire una serie di grafi orientati di cause ed effetti. Nel caso in cui gli effetti fossero persone per me positivamente importanti, finiva sempre che mi consideravo straordinariamente fortunata, perché, a ben pensarci, quante erano le probabilità che succedesse che cadessi malamente durante quella lezione di educazione fisica in prima superiore? Tante, poche, in senso assoluto, relativo, e relativo a cosa...? Però quante persone ho conosciuto per via di quella caduta?
E allora, via!, si dica che il cadere fu provvidenziale, che altrimenti quanta parte del mio film personale mi sarei persa, quanti incontri?
Verosimilmente nessuno.
Forse mi sarei persa quella parte di film, ma ne avrei sperimentata un'altra, il che è un concetto talmente banale da rasentare l'imbarazzante.
Ma ci pensavo perché non aveva nessun senso che allora mi chiedessi se con me ti fermavi a parlare perché lo volevi e ti faceva piacere, o se non si trattasse solo di educazione. Non era né l'una né l'altra cosa, era mera circostanza, in senso etimologico, ci trovavamo a dover starci attorno per un periodo la cui lunghezza (e la cui esistenza) non era stata scelta da noi, e quindi c'era quel tempo da trascorrere assieme.  Era solo il momento

And indeed there will be time / for the yellow smoke that slides along the street

e allora ho provato a ricordare tutti i fantasmi, tutte le assenze, e non c'è una colpa, nell'assenza, come non c'era un merito nella presenza, era solo questione di momenti e circostanze

There will be time, there will be time / to prepare a face to meet the faces that you meet

e quindi ecco c. che sorride nello storpiarmi il nome in un modo che avrei odiato se l'avesse fatto chiunque altro, oppure m. che scende le scale in quel modo tutto suo, qualcuno avrebbe detto "come un cavallo", io preferivo la valanga; e. che cammina fischiettando per il corridoio, s. che si fa (o fa finta di farsi?) mille problemi per la pizza nel cartone, anche se sa che per me è il modo più bello di mangiarla, l. che parla così sottovoce che devo interpolare lettere sillabe parole espressioni per cercare di ricostruire la frase complessiva, e ancora m. e tutti i suoi pretesti per ridere dei miei capelli. E poi lo so che ci saranno

And indeed there will be time / to wonder, "Do I dare" and, "Do I dare?"

tutti quelli che le circostanze porteranno e stanno portando, nuovi depositari e fonti di ricordi futuri che forse resteranno non condivisi, perché come c., come m. ed e., e ancora come s., l., m. e tutti gli altri, forse sfumeranno.

In a minute there is time / for decisions and revisions which a minute will reverse.

giovedì 11 aprile 2013

La rabbia e il mielestrazio

Oggi Gescher ci ha fatto sapere che ha intenzione di diventare una persona migliore, o una persona buona, non ho capito, non so neanche bene se le due cose si intersechino, se una includa l'altra, se si possa partire dall'assunto che Gescher sta usando migliore come comparativo assoluto a partire da buono, non so nemmeno quale sia la metrica per misurare se una persona è buona o meno, figuriamoci se riesco a stimare b(t)/t, dove b(t) sarebbe la bontà in funzione del tempo, senza contare il fatto che ignoro pure se questi incrementi siano infinitesimi o finiti, e se finiti e tra loro uguali, se ci sia un quanto minimo di miglioramento, se questo sia percepibile e se infine l'incremento possa procedere all'infinito o no. Tant'è, illuminato sulla via per Mestre, moderna Damasco, ora non perde occasione per farci presente che questo è il suo proposito, nonostante tutti si speri che stia scherzando, anche perché in caso contrario la nemesi di chi gli sta attorno potrebbe arrivare veloce e implacabile. Infatti quello scusarsi troppo spesso e quell'essere innaturalmente gentili (e lo dice una persona che una volta si è sentita dire che se avesse continuato a essere così servizievole non avrebbe mai fatto strada, e stavo solo tenendo la porta aperta a una collega, dato che è chiaro che la persona in questione ero io) mi ha fatto venire in mente due cose, o meglio, una cosa e una persona. La cosa è un sostantivo, mielestrazio, che prendo in prestito da Burgess, anzi, dalla traduzione italiana del suo Clockwork Orange, e che non credo richieda commenti. La seconda è una persona che, non a caso, a suo tempo avevo soprannominato pollyanna: si trattava di una cara, carissima ragazza, senza dubbio, uno di quei soggetti ai quali non esiterei a lasciare in custodia le mie chiavi di casa, ma la cui gentilezza costante e perenne aveva su di me effetti estenuanti e francamente irritanti. L'avevo conosciuta un'estate di qualche anno fa, lavoravamo nella stessa gelateria e, come facesse per me rimane un mistero, era sempre gentile con tutti i clienti, cosa che, va da sé, è (dovrebbe essere) richiesta a chi fa un lavoro di quel tipo, ma per come la vedo io la richiesta si esaurisce all'intervallo di tempo in cui il cliente è presente o al massimo è nel raggio dell'udibile. Dopodiché, se il cliente di cui sopra si ostina a chiedere cosa sia quel gusto bianco là in fondo, ignorando non solo l'evidenza secondo cui gli sarebbe sufficiente fare una mezza dozzina di passi per verificare con i propri occhi cosa c'è scritto sull'etichetta davanti alla vasca di gelato, ma anche il fatto che dalla posizione dove è lui, la direzione là in fondo si interseca con limone, banana, yogurt, fiordilatte e cocco, senza contare l'errore di parallasse, beh, in questo caso non appena ci si riesce a liberare del soggetto, è lecito, consigliabile, umano e catartico lasciarsi andare ai sacrosanti insulti. Lei invece no, manteneva il sorriso pollyannesco, e io la trovavo esasperante, ma credo non ci potesse fare nulla perché non faceva finta, era davvero così.
Viceversa Gescher si sta impegnando forzatamente e coscientemente per fare questa triste fine, non rendendosi conto che diventando migliore, o per lo meno migliore come sembra intendere lui la cosa, produce effetti così irritanti nel prossimo da far diventare peggiori gli altri.
Trovo che la cosa sia francamente egoista.

mercoledì 10 aprile 2013

Più carisma e sintomatico mistero

Qualche anno fa mi capitò di essere, in compagnia di una mia amica, a uno sportello di non ricordo bene che esercizio, non erano le poste, non era la banca, era qualcosa di burocratico e avevamo entrambe bisogno di un'informazione. Per pigrizia mia, nell'entrare all'interno dell'edificio che ospitava lo sportello non mi ero tolta gli occhiali da sole, tanto non c'era fila e immaginavo avremmo fatto alla svelta. Successe che la signora alla quale chiedemmo l'informazione rispose con particolare maleducazione, e vabbe', sono cose che capitano e che non dovrebbero nemmeno meritare uno spazio nella mia memoria male organizzata. Invece il motivo per cui ricordo l'episodio è perché quella volta ebbi la prontezza di spirito di rispondere a tono all'arroganza di chi mi stava di fronte tanto che, una volta uscite, la mia amica mi espresse la propria sorpresa e il proprio apprezzamento. Per amor di precisione ricordo che ammisi che tanta sicurezza derivava tristemente dagli occhiali da sole: non era che mi sentissi Paperinik o qualcuno di quel ramo, solo mi sentivo più anonima, e in quanto tale meno associabile a ricordi altrui. E di conseguenza più sicura.
Passeggiare in un paese che non ti conosce ha di questi vantaggi. Non voglio dire che l'occorrenza di girare l'angolo e di trovare qualcuno che mi saluta mi dia noia, anzi, tutt'altro, solo che mi rendo conto che se ho la certezza che questo non può succedere, beh, mi sento più a mio agio, credo sempre per il motivo di cui sopra, ossia che mi sento più anonima, meno riconoscibile, quindi meno giudicabile. 
A mio agio, dicevo. Vero, tranne domenica scorsa: gironzolavo distratta verso il centro, passando attorno alla piazza dove da qualche giorno erano state sistemate una quindicina di giostre. Alla presa di coscienza di tutti i colori, delle canzoni (una diversa per ogni giostra, con inevitabili effetti cacofonici da sovrapposizioni casuali) a volume inutilmente alto, delle pedane degli autoscontri, delle voci dei gestori che, uguali in ogni sagra, invitavano all'ennesimo imperdibile giro emozionante come nessun'altro mai, ho provato un sentimento forte e viscerale di disagio. Nell'accelerare il passo per allontanarmi, mi chiedevo quale ne fosse la causa: la conclusione a mio parere più plausibile a cui sono arrivata è che per le sagre ho sempre avuto l'età sbagliata. Mi spiego meglio: quand'ero piccola e ci andavo con i miei genitori mi sentivo a disagio perché vedevo i ragazzini più grandi (leggasi: insulsi adolescenti che però ai miei occhi sembravano persone adulte, navigate, indipendenti e giudicanti) che ci andavano per conto loro, e al loro confronto mi sentivo troppo piccola. Quando poi, più grande, mi è capitato di andarci non con i miei, ma con amici più o meno coetanei, per un qualche motivo, mi sentivo sempre sbagliata, quello era un posto per bambini, e ben sapendo che non era necessariamente così, io lo vivevo come tale.
La cosa bizzarra è che credo tutto possa dipendere dal rumore, perché se provo a immaginare la stessa situazione, però calata in un silenzio surreale, beh, ho il presentimento che non mi sentirei troppo - qualcosa di cui non ho piena consapevolezza.