giovedì 25 ottobre 2012

Castagne afgane e ghiande balcaniche

Ieri sera credevo di avere davvero tanto sonno, ma evidentemente mi sbagliavo, perché appena ho spento la luce e appoggiato la testa al cuscino, come per magia o per maledizione, mi sono sentita completamente sveglia e a mente sgombra. Al tempo stesso non avevo nessuna intenzione di riaccendere la luce e mettermi a far qualcosa, sicché mi son concessa un po' di minuti per vedere cosa avevo voglia di pensare, ricordare o immaginare. Ed è riaffiorata un'immagine vecchia di una decina d'anni, di una persona un po' particolare che incontrai un giorno di, appunto, una decina di anni fa. Tanto particolare era il lavoro che faceva che, da sotto le coperte, mi sono ripromessa che oggi l'avrei ricordato con un post.
Nel frattempo stasera ho assistito a un dialogo surreale che mi ha lasciata non poco attonita: stavo cenando con i miei, la tv era accesa sul telegiornale che ha dato la notizia dell'ennesima morte dell'ennesimo soldato italiano in missione in non-mi-ricordo-dove, tanto un posto vale l'altro.

Mia mamma, con aria sentitamente contrita: "Un altro... Ma quando si decideranno a fare rientrare quei ragazzi?"
Mio papà: "Eh..."
Mia mamma, senza soluzione di continuità, con aria ancora altrettanto contrita, senza accennare al minimo cambiamento del tono di voce: "Mi son dimenticata! Non ho controllato se all'ortofrutta avevano già le castagne".

Poi devono forse aver detto qualcos'altro, ma personalmente mi ero sconnessa chiudendo l'audio e pensando a quale cortocircuito sinaptico l'avesse potuta far saltare in modo così repentino da un argomento quale la morte del ragazzo a uno come... Ma non era tanto quello a gettarmi nel totale e raggelato mutismo, quanto il tono di voce ugualmente sofferto. Ugualmente.
E mi son messa a ripensare al ricordo della sera prima. Premetto che non voglio esprimere giudizi su cose che non conosco a sufficienza, nelle quali sono coinvolte persone animate da ideali i più diversi, qualora peraltro degli ideali siano presenti.
Dieci anni fa incontrai un soldato italiano, in Bosnia, che aveva deciso di entrare nel gruppo di coloro che si occupano della ricerca e del disinnesco delle mine antiuomo inesplose. Non era giovanissimo, per lo meno paragonato agli altri militari presenti in quella base. Parlava del proprio lavoro con molta pacatezza, senza sensazionalismi, quasi si trattasse di un'occupazione come un'altra. Forse lo pensava davvero: c'è chi opera a cuore aperto, chi si alza all'alba per fare il pane, chi vende iphone, tutte cose che rispondono a bisogni innati e primari. E c'è chi contribuisce a rallentare di un delta v ridicolo ma non nullo la corsa al disastro (no, non sono depressa, sono serenamente io).
Spiegava, sempre in tono molto pacato, quasi stesse muovendosi anche in quel momento in un campo minato, che quantità irrisorie di tempo e soldi ci vogliano a costruirla, una mina, a fronte delle cifre enormemente più alte necessarie per il disinnesco della stessa, e che attenzioni si debbano prestare costantemente, senza concedere mai un intervallo alla distrazione, e che danni avessero già procurato ai civili e non, e ... Poi, chiaro, ho dovuto lasciare la mia famiglia, non ce la facevano a sopportare questa cosa, come fosse un fatto naturale e inevitabile. Sembrava Elzèard Bouffier, l'uomo che piantava gli alberi di Jean Giono.
In realtà non è andata così, lì al momento non mi sembrava niente del genere, niente di così poetico e positivo, era un uomo in divisa che diceva di aver tagliato i ponti con le persone a lui un tempo vicine, che faceva un lavoro, per quanto insolito, ripetitivo, ripetitivo e stressante e pericoloso, e che parlava in una sera di pioggia in un ambiente idilliaco quale può essere una base militare. Solo che io, adesso, qui me lo idealizzo come una sorta di eroe silenzioso e romanticamente solitario che non pianta ghiande a una a una, ma a una a una dissotterra mine.
Perché va sempre a finire che per quanto sia brutta una cosa che vedo o che vivo, poi passa il tempo e la smusso, la filtro, la camuffo, ne tiro fuori conclusioni che al momento non c'erano. Insomma, la mistifico e àltero.
Ma almeno non penso alle castagne mentre subisco un tg.

domenica 21 ottobre 2012

Che ne dirà Petronio?

Tempo fa consigliai a Napalm un film che consideravo (e considero) apprezzabilmente macchinoso e via via sempre più coinvolgente: è una sorta di matassa della quale a sprazzi si avverte la sensazione di aver trovato il bandolo, per poi ricadere nel dubbio sull'effettiva veridicità di quello che si era creduto di aver capito. E, ça va sans dire, non era un cinepanettone; trattavasi di Memento, di Nolan. Fatto sta, Napalm non riuscì a finirlo, anzi, ne guardò grosso modo una ventina scarsa di minuti e poi abbandonò l'impresa, adducendo come motivazioni il fatto che fosse (sic) noioso e lagnoso. Si potrebbe dire che de gustibus con quel che segue. E sia, diciamolo.
Dopo qualche settimana fu lo stesso Napalm a consigliarmi un'opera di Georges Méliès della quale, mea culpa, non conoscevo l'esistenza. Dopo averla vista, ma senza specificare se mi fosse piaciuta o meno, lo ringraziai per avermela fatta conoscere perché, a prescindere dall'opinione che poi me ne posso fare, mi piace sapere che un'opera esiste, mi piace poter dire di conoscerla. Non rileggerei mai On the road, l'ho trovato terribilmente pesante, eppure penso che vada conosciuto. La cosa è estremamente discutibile, qualcuno potrebbe obiettare che nel tempo speso a leggere (guardare, ascoltare, ...) un'opera che non fa per me, in quel tempo avrei potuto dedicarmi a qualche altra più sulle mie corde. Forse, ma allora resterei sempre sulle mie corde, per l'appunto, e sono corde che a volte trovo stantie.
Dicevo che, senza specificare se il film di Méliès mi fosse piaciuto o meno, ringraziai Napalm per avermelo fatto conoscere. La sua risposta fu qualcosa del tipo figurati, so di aver buon gusto. Ovviamente lasciai cadere la questione, ma devo confessare che trovo un po' ridicoli coloro che si autoeleggono arbitri di eleganza in quanto dotati di buon gusto. Dubito che la signora più larga che alta che si ostina a indossare degli improbabili leggins leopardati lo faccia per portare avanti la bandiera del cattivo gusto, piuttosto credo che nel momento di comprarli abbia pensato che potevano darle un look aggressivo, oppure le sia venuta in mente quella foto mistificatrice vista nell'ultimo Vanity Fair dove, addosso a una modella il cui peso è un ordine di grandezza inferiore a quello della signora in questione, anche i leggins leopardati assumono un cerco qual fascino.
Insomma, trovo che la frase io ho buon gusto sia del tutto inutile, se non addirittura smaccatamente sbagliata e sciocca, e a nulla serve ammorbidirla con un io credo di aver buon gusto. Siamo sempre noi che guardiamo a noi attraverso la distorsione innata e inevitabile che si associa all'autogiudizio.

E poi magari vien fuori che alla corte di Nerone si usavano le toghe leopardate.

domenica 7 ottobre 2012

La ricetta universale

Un giorno, era estate, ero andata a camminare per i colli. Decido di uscire dal sentiero e mi trovo in un pezzo di terra molto grande coltivato a rosmarino. Non saprei quantificare il molto grande, ho sempre avuto problemi a misurare a occhio le lunghezze, figuriamoci le aree, figuriamoci in pendenza.
Ad ogni modo, l'aria era impregnata del profumo di questa pianta aromatica. Faceva davvero molto caldo, non c'era ombra dato che ero in mezzo ad arbusti che a malapena mi arrivavano alla cintura, il sole era in uno di quei giorni in cui sembra che quasi voglia cucinarti.

E per un attimo mi sono immedesimata in un abbacchio e ho avuto la sensazione che un occhio si avvicinasse per controllare che fossi ben cotta.

Cuocere in forno ventilato alla temperatura di 25-30 gradi per qualche decina d'anni.

mercoledì 3 ottobre 2012

Moti d'onde portanti

Poi gli capitava sempre più di frequente di trovarsi a consolare qualcuno, spesso riguardo cose che erano anche i suoi tormenti, però per un certo intervallo di tempo si sapeva in grado di dimostrarsi non certo asettico e impermeabile, ma sicuramente non toccato dal problema, dall'angoscia specifica, se non addirittura in grado di controllare entrambi, e finiva con lo scoprirsi in possesso di un equilibrio e di una lucidità che non conosceva nemmeno lui.
E fortunatamente, pensava, chi ha bisogno di essere ascoltato non è generalmente nella disposizione d'animo migliore per ascoltare a propria volta e farsi carico di qualcosa, e questo è un bene, perché c'è del vero nel credere che chi ascolta davvero poi, almeno per un po', non vuole più parlare, serve del tempo per metabolizzare, pensava, per scomporre, ricomporre e mettere ordine, perché è nell'ordine che metto nelle angosce degli altri che li incoraggio, è nel procedimento rigoroso e dicotomico, benché sinceramente partecipe. Per questo apprezzo, pensava, che non mi si chieda di parlare di me dopo che ho ascoltato, perché si potrebbe fraintendere tanta partecipe razionalità, scambiandola per equilibrio inserito in un quadro complessivo di contentezza.
E in realtà sapeva fin troppo bene che la sola risposta che avrebbe potuto dare a un E tu, come fai? sarebbe stata un arrendevole Esisto, per quel che posso, tacitamente conscio com'era che la frequenza dell'alternarsi dei propri stati d'animo era modulata da un segnale irragionevole.