martedì 21 agosto 2012

La garza

Un giorno il signor Donchi, guardandosi allo specchio dopo la doccia, si accorse che circa alla base dello sterno la propria pelle aveva assunto una singolare trama, tipica di una garza, su una superficie di qualche decina di centimetri quadrati o, per essere precisi, su una superficie di esattamente cento centimetri quadrati, essendo la zona incriminata un perfetto quadrato dal lato di dieci centimetri tondi tondi. Si toccò lievemente con i polpastrelli e le sue dita sensibili percepirono che anche la consistenza rassomigliava a quella tipica di una garza. Per di più appena sfiorava la pelle in quella zona, come per una sorta di cortocircuito nervoso, il suo cervello gli faceva visualizzare proprio una garza, bianca, quadrata, insomma, una comunissima e banalissima compressa di garza.
"Che fai?", gli domandò la moglie, vedendolo indugiare insolitamente davanti allo specchio.
"Niente", le rispose, "mi guardo qua, sul petto. Premendo sento un certo dolorino".
La moglie si avvicinò per vedere meglio. "Che strano, sembra una garza. E proprio vicino al punto dove sei stato operato tre anni fa".
Insospettita, gli consigliò di rivolgersi al medico di famiglia il quale, con bonaria condiscendenza, gli spiegò che la questione era senz'altro fuori discussione, non poteva esserci alcuna correlazione tra l'operazione e quella sorta di bassorilievo peraltro di dubbio gusto.
"Non vorrà forse dirmi che teme che tre anni fa qualcuno abbia dimenticato di rimuovere una garza sterile e che questa se ne salti fuori ora, bella distesa, così, come niente fosse, suvvia!".
"E' che se ci passo le dita sopra io vedo proprio..."
"Signor Donchi, non sia testardo, qui facciamo medicina, mica stregoneria. Evidenza!, analisi!, sintesi e... e... beh, quell'altra cosa. Lei è stressato, è il cambio di stagione".
"Ma il dolorino..."

Insomma, per farla breve, tanto insistette e puntò i piedi che il medico, pur controvoglia, gli prescrisse una visita specialistica urgente. Fu quindi così che dopo cinque mesi il signor Donchi si ritrovò a parlare con il dottor Minotti, il chirurgo che tre anni prima si era occupato del suo caso. Anzi no, al momento della visita venne informato che non proprio di lui si trattava, dato che l'equipe del primario era stata cambiata e il medico che l'aveva operato era stato trasferito. Per cui spiegò il proprio problema a un piccoletto dai modi spicci e determinati il quale, per non perdere tempo, lo fece andare nell'ambulatorio dove un garzoscopio di ultima generazione era appena stato installato. Fu con sommo disappunto che lesse l'incontrovertibile verdetto del garzoscopio: una garza quadrata bianca, dieci per dieci, leggermente ruotata sul piano coronale, era stata dimenticata dentro al signor Donchi.

Non-Minotti: "Signor Donchi, come lei mi insegna queste cose non dovrebbero succedere in un paese civile".
D.: "Lasci stare. Piuttosto, posso chiederle cosa dovrei..."
Non-Minotti: "Ma come lei capirà non posso essere io a prendermi l'incarico di seguire un simile caso. Questo reparto non si occupa dell'asportazione di garze dimenticate. Provi a chiedere alla caposala, saprà indicarle il medico più adatto al caso".
Caposala: "Innanzitutto le dico che un caso come questo non mi era mai successo, quindi bisognerebbe capire a quale protocollo farla risalire. Forse il dottor Ricci..."
Ricci: "Veda, questo è un tipico problema di ruoli. Assumiamo pure, per piacere di conversazione, che io sia disposto a operarla per toglierle quella garza, cosa che in realtà non ho mai detto, badi bene. Ora, chi si assume la responsabilità dell'atto di togliere la garza, di asportarla? Non esiste una figura professionale del genere, nel nostro paese. Al massimo possiamo chiedere a De Angelis, il nostro ferrista".
De Angelis: "Premetto che considererei un azzardo intervenire modificando qualcosa che sia stata fatta sotto la supervisione del dottor Minotti. Se quella garza è stata messa lì, chi ci dice che non ci sia un valido motivo? Potremmo sentire il parere della dottoressa Paolucci, che..."
Paolucci: "Guardi, per come la vedo io, direi che la semplice asportazione potrebbe compromettere quanto fatto in precedenza. Senza contare che io mi occupo da anni di operazioni eseguite utilizzando garze quadrate di lato otto per otto, ma sul dieci per dieci non mi sento di fare pronostici. Un bravo chirurgo che so lavorare con le garze dieci per dieci è il dottor Nicoletti".
Nicoletti: "Purtroppo io mi sono specializzato nel trapianto tra viventi di garze. Lei deve capire che una garza presente nel corpo da tre anni non può essere asportata senza recare danno. Potremmo quindi asportare la sua dieci per dieci, impiantandole una otto per otto, ovviamente non nuova, ma donata da un altro soggetto: in questo modo lei riceverebbe una garza che ha già trascorso un certo lasso di tempo all'interno dell'ambiente biologico, che quindi, per così dire, è stata umanizzata, non so se mi spiego. A questo punto l'esperienza della dottoressa Paolucci potrebbe portarci a una risoluzione definitiva, senza se e senza ma. Le consiglierei comunque, giusto per tagliare la testa al toro, di sentire l'opinione del dottor Mastrangeli, un mago nel suo campo".
Mastrangeli: "Le basi, le basi! Questa TAC è troppo vecchia, l'esame è senz'altro da ripetere. Le consiglio il dottor Brigli, il nostro miglior radiologo".

E fu così che, dopo essere passato anche per il dottor Brigli, che gli consigliò di interpellare il dottor Andrisani, che gli suggerì di chiedere alla dottoressa Bertini, che gli segnalò l'esperienza del dottor Lenzi, che propose di sedersi attorno a un tavolo per studiare l'eccezionalità dell'evento, il signor Donchi venne finalmente inserito nella lista della persone in attesa di trapianto: avrebbe dovuto aspettare che un donatore provvisto di una garza quadrata otto per otto fosse disponibile all'espianto, dopodiché sarebbe tornato dalla dottoressa Paolucci la quale, forte della scuola di specializzazione frequentata a Boston per l'asportazione di garze otto per otto, avrebbe provveduto all'eliminazione.

Il signor Donchi, come è facile immaginare, non venne mai a capo del proprio problema. Morì un giorno, mentre in auto stava dirigendosi verso la Danimarca in compagnia della moglie. Gli avevano detto che là avrebbe potuto consultare un luminare che anni prima si era occupato di un caso simile al suo. Si trovava ancora in Olanda, il sole stava calando, quando all'improvviso sentì una fitta al petto e cominciò a mancargli il respiro. Dato che era in aperta campagna poté fermare l'auto senza perder tempo a cercare aree di sosta. Aprì la portiera, posò i piedi a terra, riuscì a fare pochi passi e si accasciò.
L'ultima cosa che vide fu un grande campo di tulipani colorati, interrotto da una mezza dozzina di mulini a vento.


giovedì 16 agosto 2012

La tasca

Avrebbe voluto potersi disincarnare così da staccarsi da alcune parti di sé, del sé inteso sia come corpo sia come quell'altra cosa. Avrebbe voluto non dover rispondere di parti di sé, in primo luogo delle proprie mani, che gli avevano fatto scrivere ciò che lui ben sapeva, e il fatto che tutto fosse partito dalla propria mente era da considerarsi marginale se non addirittura irrilevante, avrebbe voluto staccarsi dagli effettori finali, visibili e riconoscibili, non certo da un grumo di non-intelligenze distribuite al quale, e questa era una sua idea, si attribuivano o troppe o troppo poche responsabilità.
Era un desiderio che a volte gli si riaffacciava alla mente, forse dopo che quella notte si era svegliato da un sogno dove qualcuno lo prendeva per l'avambraccio, e al momento di aprire gli occhi si era accorto che era la propria mano destra che teneva il proprio avambraccio sinistro, ma nel sogno, e ne era ben certo, la mano era di qualcun'altro.
O forse il desiderio andava fatto risalire a quel giorno in cui, in preda ad uno stato di coscienza alterato per via esogena, aveva percepito di essere cosciente di sé, ma di non controllare il proprio corpo, che pure fino a poco prima gli aveva permesso di girare pagine, di salire scale, di scrivere lettere o calciare palloni ogniqualvolta egli lo avesse desiderato; in quel momento aveva avuto paura, tremava come quando la febbre sale improvvisa e si cercano coperte e coperte, sentiva di non avere alcuna autorità sulla mandibola che gli faceva battere i denti in modo convulso, sulle gambe che tremavano incontrollate, sulle mani che non riuscivano ad afferrare alcunché. A malapena era stato in grado di chiederle aiuto, ma una parte di sé se ne vergognava, continuava a giustificarsi come un genitore che tenti di scusarsi per il figlio irrequieto che non ascolta rimproveri e minacce. Lei però in quel momento non poteva prestargli attenzione, si era girata, l'aveva guardato, ne era ben certo nonostante non riuscisse a mettere a fuoco ciò che lo circondava, si era addirittura avvicinata, concedendogli un momento di illusione, ma aveva giudicato la situazione normale e si era allontanata. Fu in quel momento che perse di nuovo i sensi, perse anche il , ma poi non avrebbe saputo indovinare per quanto tempo.
La sensazione e la cognizione gli erano però rimaste e ora, di tanto in tanto, si ritrovava con quel desiderio inespresso e irrealizzabile, di staccarsi temporaneamente da alcune parti di sé.

Avrebbe voluto non rispondere di parti di sé, in primo luogo delle proprie mani, gli effettori finali di ciò che aveva scritto. Non che se ne vergognasse o che rinnegasse quelle righe, non che fossero più penose di altre che gli era capitato di leggere, anzi, ma quelle che trovava scritte da altri erano necessariamente parziali, non si accompagnavano al ricordo dello stato d'animo di quando erano state scritte. Perché, benché egli non scrivesse mai sotto l'impulso dell'emozione, ma sempre a mente il più possibile fredda e asettica, pure ciò che scriveva derivava da un turbamento lasciato decantare.

Avrebbe voluto staccarsi temporaneamente dalle proprie mani, disconoscerle, lasciare che si muovessero come se non fossero sue. Ma era più semplice nasconderle in tasca.

mercoledì 15 agosto 2012

Compro un aggettivo

Ho la sensazione che la frequenza dell'uso di accostamenti casuali tra sostantivi e aggettivi, nel modo di parlare, nelle canzoni di cantantucoli o presunti tali o nei testi che mi capita di leggere qua e là, stia aumentando in modo incontrollato, e forse stiamo solo diventando tutti dei Quasimodo, ma non so se sto riferendomi al premio Nobel o al gobbo. Tutto ciò mi ha fatto ripensare alle battute iniziali di un film italiano di una ventina di anni fa, genere commedia (non cito il titolo perché lo trovo troppo brutto), nel quale due dei protagonisti polemizzano e litigano esattamente su questo tema. Sono andata a cercarmelo:

Lui: Sappi che non mi piace neanche quando dici che un'insalata di pomodori è simpatica, che un succo di frutta è geniale, che un alimentari è pazzesco e un film è scomodo, va bene? (...) Basta che provi a invertire, perché un alimentari può essere scomodo, un film geniale, e un'insalata di pomodoro può essere buona, cattiva, fresca, marcia...ma pazzesca no, e nemmeno simpatica, hai capito?
Lei: Stronzo.
Lui: Ecco, questa è un'espressione figurata corretta, magari un po' volgare, ma non c'è bisticcio lessicale, e nemmeno arditezza semantica.

Troverei utile che questo breve dialogo venisse inserito come nota a pie' pagina nella definizione di sinestesia, in modo da evitare quei tentativi malriusciti e patetici che si fanno da liceali nella convinzione di essere poetici. E fin che ci si limita all'adolescenza si è ancora in un contesto di errore umano, ma se si dilaga anche negli anni successivi, si incorre in una diabolica perseveranza.

venerdì 10 agosto 2012

Assente di me

Lo sapeva bene, Adeline Stephen, che quanto poco, tutto compreso, si può raccontare della propria vita. Eccomi seduto qui, lei è seduta lì; ambedue, non ne dubito, pieni zeppi delle più interessanti esperienze, idee, emozioni; eppure, come comunicare?, quindi se non mi viene spontaneo il comunicare non è per aristocratico distacco, o forse anche per un po' di quello, faccio fatica a mettermi a fuoco, ma è soprattutto perché, nonostante sappia che le differenze sono fonte di arricchimento, so anche che ad un certo punto il fondo cassa della diversità comincia a languire e non voglio parlare delle cose di cui parlano tutti, perché non mi interessano, e non mi si chieda se il motivo per cui non mi interessano è che ne parlano tutti, o se non sarebbe invece il caso di invertire il rapporto tra causa ed effetto, ammettendo l'evidenza che la circostanza per cui tutti parlano di un certo argomento sia sintomatica del fatto che quell'argomento non mi interessa, o meglio, non mi interessa più.
Quindi se vedi che mi trincero dietro al libro di turno, chiediti se non sia perché io con la solitudine mi trovo in discreta compagnia, dopodiché ragiona pure sul paradosso implicito, ma non pensare che io sia persona degna di confronto dialettico solo perché leggo, e qualora tu lo pensassi vedrò di fornirmi della sovraccoperta del libro della Clerici e di Vespa (dove il tutto è ancora una volta più della somma delle singole parti, nel senso che la sensazione di brutto che l'accoppiata mi risveglia è maggiore dell'unione delle analoghe reazioni che avrei pensando ai due separatamente. E non mi si dica che dovrei leggere la loro opera sperabilmente ultima prima di giudicare, perché so che dovrei farlo ma non lo farò) così penserai che leggo robaccia e mi lascerai stare. In realtà io so benissimo che non potrei mai farlo, che non ce la farei mai a farmi vedere in pubblico con certa produzione in mano, perché per quanto faccia l'indifferente e l'emancipata, alla fine devo sempre fronteggiare la consapevolezza che mi faccio condizionare da cosa staranno pensando.

lunedì 6 agosto 2012

Il dubbio

Era salita dopo che io mi ero già accaparrata uno dei pochissimi posti liberi. Ormai non ce n'erano più, e la gente cominciava a far fila nel corridoio, tra i sedili. Non l'ho notata subito, dato che mi ero già messa a  leggere. Ma alzando gli occhi l'ho vista, a un metro da me, in piedi.
Forse avrei dovuto alzarmi e cederle il posto, la cosa non avrebbe rappresentato un problema, ma se poi lei si fosse offesa? Offrirle il mio posto non equivaleva forse a dirle che la consideravo anziana? Cosa che a rigore non dovrebbe rappresentare un'onta, o forse la penso così perché al momento si tratta di un problema che non mi riguarda, ma in ogni caso quante sono le persone che non vogliono far sapere la propria età? E se io ora mi alzassi e le dicessi Prego, signora, si sieda pure al mio posto e lei interpretasse il mio gesto di attenzione come un riconoscimento della sua età, meglio, della sua presunta età, per di più davanti a decine di persone, come reagirebbe?
Prevedevo tre possibilità: la prima, lei accetta, mi ringrazia, sorride, si siede, io raccolgo sguardi di approvazione, mi sento migliore, migliore di tutti costoro che se ne stanno comodamente seduti e non si accorgono o non si interessano del proprio prossimo, e la giornata acquista il senso che prima non aveva. La seconda: lei si irrigidisce impercettibilmente, evidentemente offesa dalla mia proposta, ma per evitare piazzate e con un rapido bilancio tra costi e benefici (tutta questa gente si è accorta che sono vecchia VS mi siedo e appoggio le due borse) accetta la mia proposta, io raccolgo sguardi di approvazione ma un alito di amarezza mi soffia sul collo, e dato che sono in treno dubito si tratti dell'aria condizionata. La terza: lei si irrigidisce platealmente, mi chiede perché mai dovrebbe essere lei a sedersi quando ci sono tante persone evidentemente più in difficoltà, senza contare il fatto che lei non ha il minimo problema a viaggiare in treno in piedi con due borse e trentacinque gradi, che è abituata a ben altro e non ha certo bisogno di una ragazzetta impertinente che trovi un modo così sgradevolmente ossequioso per insultarla. Questa reazione, a propria volta, avrebbe portato a molteplici conseguenze possibili, per esempio una divisione degli astanti in due gruppi, chi a favore mio e chi a favore di lei. Oppure lei che continua a lamentarsi e a farmi presente che per esempio sarebbe stato più indicato offrire il posto a quella signora incinta vicino al ragazzo con la maglietta a righe, ma a questo punto la signora incinta avrebbe potuto girarsi con uno sguardo degno di Medusa e urlarle contro che lei non è affatto incinta, qualcuno sta forse dicendo che è grassa?
Che fare? Provo a studiare il soggetto: sembra un'istitutrice, o la direttrice di un collegio femminile d'altri tempi, con quei capelli grigi raccolti in un severo chignon, la longuette beige con il cardigan leggero in tinta, gli occhiali dalla montatura importante ma sobria e le décolleté con l'austero tacco basso e largo. Che età potrà avere? E possibile che nessuno si alzi al posto mio? Che stiano facendo tutti il mio ragionamento? Oh, le suona il telefono, ora parlerà e dalla voce capirò per lo meno che... Niente, ha detto solo che sta arrivando, non ho capito niente di tutto quello che avrei voluto. Che fare, che fare? Mi alzo e rischio? Resto qui e fingo di non averla neanche notata? In fondo ho ancora gli occhiali da sole, benché stia leggendo. Mi alzo e...?
Oh, la mia stazione, mi alzo.

domenica 5 agosto 2012

Perché non discendiamo dalle scimmie

Mi sembra lampante, ma forse non lo è: non discendiamo dalle scimmie perché discendiamo evidentemente dai cani e dai gatti. Non entrambi contemporaneamente, va da sé. Qualcuno discende dagli uni, qualcuno dagli altri.
Se sto passeggiando e passo davanti alla casa nel cui giardino sia presente un cane, questo prenderà ad abbaiare in modo più o meno minaccioso, a correre avanti e indietro lungo la siepe o il cancello di recinzione, insomma, a farmi capire che sa della mia presenza e che ci tiene a informarmi della propria. Lo stesso dicasi se il cane in questione non si trova rinchiuso, ma gironzolante per strada con o senza padrone. Sì avvicinerà, magari con qualche abbaio, con qualche scodinzolo, manifestando un desiderio irrefrenabile di giocare, o di attaccarsi alle caviglie, o di offrire la propria compagnia da ora a per sempre.
Un gatto a malapena alza la testa, ma in linea di massima resta comodamente sdraiato e nullafacente. In rari casi, e solo se già stava camminando per conto proprio, si avvicinerà, magari strusciandosi pigramente sul polpaccio, arrotolando svogliatamente la coda. Ma poi basta.

E la sottoscritta? Più felide o più canide?
Non posso essere io a rispondere, soprattutto se non ho evidenze scientifiche. Ho pensato pertanto di procurarmele, queste evidenze, queste prove incontrovertibili, e cosa ci potrebbe essere di meglio di una ricerca alle basi più prime, ossia al mio DNA? Quindi ho deciso di procedere con il sequenziamento. Mi sono procurata il materiale necessario: una lente, una pinzetta, della colla e un capello. Mio. Poi però ho pensato che è come quando decido di fare la torta di mele, c'è sempre la zia / nonna / vicina di turno che conosce il trucco per farla meglio. Allora ho preso il telefono e ho chiamato la Rita Levi per chiederle qualche consiglio da donna navigata. E' stato molto utile, mi ha detto di procurarmi la piperidina in un negozietto dove va sempre anche lei, e di dire espressamente al proprietario chi è che mi manda. E poi, il trucco della persona di esperienza, si è raccomandata di usare il nastro biadesivo, sennò poi i pezzi si mescolano e non si capisce niente.
Il biadesivo, chi ci avrebbe mai pensato? Così ne ho comprato parecchi rotoli, bianco, colorato, in tinta unita, con dei disegni. Poi sono andata nel negozio che lei tanto mi aveva consigliato. Il proprietario, una via di mezzo tra Albert Hofmann e Panoramix ma col camice bianco e la matita appoggiata sull'orecchio, mi ha accolta con un sorriso ambiguo. Gli ho detto cosa cercavo e chi mi mandava, ha strizzato un occhio e mi ha detto che aveva quello che faceva per me. A me ne bastavano un paio di etti, purtroppo però aveva solo confezioni da mezzo chilo, ma mi ha fatto presente che in ogni caso avrei potuto poi usarla anche contro le formiche e per il mal di stomaco.
Sicché me ne sono uscita col mio mezzo chilo di piperidina e la vaga sensazione che mi avesse presa in giro, sensazione che s'è esacerbata quando ho visto che le formiche continuavano indisturbate il loro andirivieni anche se le cospargevo di piperidina più di un pandoro con lo zucchero a velo.
Non ha importanza, non divaghiamo, a me serviva per altri scopi, e per quelli posso dire che le cose stavano procedendo abbastanza bene. Infatti avevo chiesto a prestito la camera oscura a un mio amico fotografo. Ho srotolato e attaccato biadesivo sul tavolo, e un po' anche sul pavimento e sulle pareti, per sicurezza. E poi ho cominciato.
La prima base che mi son trovata tra le mani era una guanina, bella grande, con tutti i suoi azotini al posto giusto. Poi è stata la volta di un'adenina, che ho diligentemente attaccato al nastro adesivo. Poi ancora una coppia di timine, piccoline ma ben proporzionate. E qui, complice la scarsa luce o quel vago mal di stomaco (il vecchiaccio mi aveva proprio buggerata), ho interrotto il lavoro e mi sono acciambellata a dormire sul divano.

venerdì 3 agosto 2012

Decisions and revisions

Una volta ho odiato una persona. Avevo diciannove anni. Poi ho smesso.
Non mi sono sentita migliore o peggiore, non ho deciso io che era il momento di finirla.
Ho solo smesso.