sabato 30 giugno 2012

Non mi faccia parlare

Probabilmente trasgredire è un'arte, una sorta di privilegio che non tutti si possono permettere. Non sono trasgressiva, viaggio in autobus con il biglietto e non per timore del controllore, ma perché (nella realtà filtrata attraverso i miei occhi e il mio pensiero) è giusto così. L'unica trasgressione che al momento mi viene in mente è quella di un piercing all'elice, ma 1. penso che questa cosa abbia cominciato a essere considerata trasgressiva negli anni Quaranta e abbia finito di esserlo negli anni Sessanta; 2. dev'essere fastidioso farsi bucare lì, quindi addio trasgressione, ho paura.
Eppure incontro spesso gente che vuol far credere di essere trasgressiva, ovviamente senza rivelare dettagli o situazioni o fatti che dimostrino una cosa che in realtà, verosimilmente, non esiste.

Mi è capitato di recente di parlare di sostanze stupefacenti con persone diverse, con le quali non sono in confidenza. Non si trattava, o almeno così credo, né di spacciatori né di consumatori attuali o ex, erano semplicemente persone (chiedo scusa in anticipo, a me compresa, per l'aggettivo che sto usando) normali. Il mio interesse per la materia si restringe al desiderio di sapere cosa succeda chimicamente e fisicamente all'interno del cervello e, più in generale, del corpo. Va da sé, non ho alcuna intenzione di provarlo personalmente, trattasi di pura curiosità speculativa. Tutto questo per dire che posso considerarmi ignorante in materia: non conosco statistiche di diffusione e consumo, né stime del giro di affari legato al traffico di sostanze di questo tipo, non mi metto a fare psicologia spiccia sul perché qualcuno possa arrivare a farsi di qualcosa e infine, lo ammetto, non ho una posizione sul tema della liberalizzazione, e pazienza se mi vergogno di non riuscire a convergere a un sì o a un no.

Ho trovato interessante come, tra coloro con i quali ho affrontato l'argomento, ci fosse un atteggiamento comune e condiviso. Non tra tutti, ovvio, forse a conti fatti su un numero di individui che non ha alcun significato statistico, però sono spesso incline al seeing patterns and finding correlations, con buona pace delle statistiche. 

E sono molti di più di quelli che si pensi, a farne uso. Anche gente del tutto insospettabile.

Questa frase viene spesso pronunciata con espressione molto sorniona, abbastanza informata e blandamente preoccupata. Ora, posso capire che uno sia blandamente preoccupato: la cosa non lo riguarda e fine. Posso capire anche che voglia sembrare abbastanza informato, chi non lo fa su un qualunque argomento che vada dall'agiografia alla zoologia? Quello che non capisco è perché voler apparire molto sornioni nel dire un'affermazione di questo tipo. Si vuol farmi credere che, pur essendo puri e immacolati, se ne sa più di quello che si può dire (fatica inutile, non ci credo e non mi interessa), oppure lo scopo è quello di darsi un tono da bohémien che in realtà non si ha, non si è mai avuto e non si avrà mai? Si vuol fingere un lato intrigante e trasgressivo che neanche Dorian Gray?
Mi dispiace, io preferivo Lord Wotton.


lunedì 25 giugno 2012

It's a shame (such a shame)

O sono sbagliata io, e sto parlando del mio lato comportamentale, oppure l'alternativa è che faccio un uso erroneo delle parole. Di due sostantivi, in particolare: imbarazzo e vergogna. Secondo un'autorevole scienziata dell'Università della California a San Francisco (erano anni che sognavo di dire una frase da giornalista come questa), l'imbarazzo, così come il senso di colpa, coinvolgerebbe un elemento sociale che lo distinguerebbe da sentimenti come invece la rabbia o la tristezza, e si presenterebbe quindi solo in presenza di altre persone, derivando in gran parte da come pensiamo ci vedano gli altri.
La cosa non mi tornava, e quindi mi son messa a indagare. Maledizione, continuo a trovare gente (sempre autorevoli scienziati di qualche autorevole università di qualche california a caso) che conferma che ci si imbarazza di fronte a una persona, meglio ancora, l'imbarazzo rivelerebbe le grandi considerazione e importanza che questo individuo assume ai nostri occhi, talmente grandi da farci sentire inadeguati. Una sorta di sbilanciamento tra la nostra autostima e la stima verso l'altro, che genererebbe il conseguente disagio.
Insomma, tutti sono concordi nel dirmi che l'imbarazzo è sempre pubblico. Fine. La vergogna, per esempio, no, perché ha senso che ci si possa vergognare anche per motivazioni che nessun altro conosce, ma questo discorso non può essere fatto per l'imbarazzo, che mi piaccia o no.
E quindi forse basta che io inverta le parole che uso, perché se le cose stanno così non ci siamo mica. O meglio, non ci sono mica. Io mi vergogno in pubblico, non in privato, ma per imbarazzarmi posso benissimo essere da sola. E' il motivo per cui, anche se da sola, non riesco a vedere certi film, a leggere certi libri, ad ascoltare certa musica. Non devono essere cose brutte, per quelle brutte non c'è problema, non mi piacciono e fine. Anzi, talvolta non nascondo un certo gusto trash nell'approcciare, per esempio, libri che meriterebbero il macero. Ma qui si tratta di altro, si tratta di provare imbarazzo (o qualsiasi cosa esso sia, ho quasi l'impressione di essere affetta da daltonismo emozionale: ho imparato che questa disposizione d'animo di chiama imbarazzo, che questo giallo si chiama rosso, e continuo a chiamarlo imbarazzo anche se è giallo), di una cosa così viscerale e dipendente solo da I, me and myself che il libro non lo finisco, il film nemmeno, la canzone resta là, evito di partecipare a certe conversazioni. In quest'ultimo caso sì l'imbarazzo mi assume connotazioni pubbliche e sociali, ma non certo per uno sbilanciamento tra la mia autostima e la stima che provo per i presenti-parlanti. Per lo meno non uno sbilanciamento a favore di questi ultimi. E non è perché voglia fare la snob, è che proprio non ce la faccio, e quindi non dico la mia, mi va bene la loro, benché non la condivida.
Forse il problema è che in fondo sospetto che nessuno condivida quel certo modo di ragionare, che sia un simpatico teatrino dove ognuno recita, abbracciandola tacitamente, la propria parte. Non avrebbe quindi senso intromettersi, anzi, farei la figura dell'ingenua e della guastafeste se prendessi alla lettera come vero quello che invece è conveniente dire per una finzione collettiva supinamente accettata dai più.

giovedì 21 giugno 2012

Private (4)

Il sonno della ragione genererà anche tutti i mostri che vuole Goya, ma il risveglio tardivo della stessa può far di peggio.
Lei è la persona credo più ingenua che conosco, ingenua e semplice e impressionabile. Per autocitarmi potrei dire che il caffè non lo mescola proprio, ma lascia che lo zucchero si sciolga da solo, non sia mai che possa interferire con il Disegno. Molte volte l'ho osservata per capire come possa essere così, desiderando di trovare una sveglia che produca le frequenze giuste per scuoterla, per poi alla fine ripensarci, memore dell'odio che ho sempre avuto per chi distrugge i castelli di sabbia, fossero anche solo inconsapevoli onde.
Mi diceva che ha saputo, tramite quel mezzo antidialettico che a noi ci piace assai, la televisione (proprio l'oggetto, dico, esposto in salone) quanta acqua sia necessaria per le attività più comuni e quotidiane, per esempio quanta ne serva per produrre un chilo di carne, per fare una camicia, per costruire e disfare, insomma, per tutto. Secondo l'esperto pseudodivulgatore pseudoscientifico, sarebbe a causa del nostro vivere dissennato e dissoluto che milioni di persone non potrebbero beneficiare di sorella acqua.
Non ho avuto modo di ascoltare direttamente il saggio sermone, ma solo attraverso quanto mi ha riportato lei, smarrita e profondamente turbata, pericolosamente caduta da soffici cumulonembi. E quindi, mi chiede, cosa potremmo fare?
E posso io non arrabbiarmi? Purtroppo devo, limitandomi a dirle che non dipende da noi, che è così ora che siamo più di sette miliardi, ma era così anche quando eravate in quattro, di miliardi, e non vuol dire secoli fa, dato che lei c'era, ma non le posso disegnare una f(x)=e^x, né posso raccontarle che 2060 AD, 1.2 Million people.
Non siamo principi Amleto, né siamo destinati a esserlo.

domenica 17 giugno 2012

"Non ne vale la pena"

Trovo che l'accostamento nome-aggettivo tendìne spione, che purtroppo non so che figura retorica sia, evochi in modo magistrale l'immagine della situazione che vuole descrivere. D'altronde non si parla di un autore improvvisato, ma dello stesso che si è preso la responsabilità di dire di non sopportare più le persone che mi annoiano anche pochissimo e mi fanno perdere anche un solo secondo di vita. Quell' anche pochissimo nasconde un mondo di individui affetti da una particolare forma di horror vacui, dicono parole per riempire silenzi e vuoti che, lasciati stare così come sono, sarebbero estremamente appropriati.
Insomma, mi piace come scriveva e come pensava Parise, mi dispiace di dover usare il passato.
Tendìne spione è una trovata particolarmente felice e azzeccata, ed evoca all'istante la presenza di qualcuno che, nascosto (o almeno così crede) dietro le tende della finestra osserva inosservato (o almeno così crede) tutto l'osservabile che sta fuori.
Sarei portata a immaginarmi quel qualcuno come una persona mediocre e un po' meschina, che si nasconde, osserva, tiene conto, suppone, costruisce trame e castelli in aria. Però no, alla fine mi son convinta che non sia così. Semplicemente ci sono persone curiose e altre indifferenti a ciò che capita loro attorno. Le prime appena sentono un rumore associabile alla presenza di esseri umani devono controllare se e chi e quanti. Le seconde spesso neanche sentono il rumore. E se lo sentono reagiscono con un: "Beh, se cercano me si faranno vivi".
Il, credo, primo a farmelo notare è stato quell'osservatore impagabile che era Zzac. Aveva una casa molto grande al mare, in un paesetto dimenticato forse non da Dio, ma fortunatamente dagli uomini, un gruzzolo di case e personaggi bizzarri nella loro ordinarietà, come possono esserlo tutti quelli che passano una vita isolati dal resto del mondo. Ogni estate andavo a trascorrervi qualche giorno di buen retiro. Per strada, in auto, raramente Zzac superava i 50 chilometri orari: il rito era quello di immergersi nel contesto in cui si era, evitando accuratamente ogni forma di fretta e velocità. Era lo stesso principio per cui una volta che s'era finito di pranzare non poteva venire in mente di alzarsi subito da tavola, ma si stava a chiacchierare, giocando distrattamente con le briciole del pane o con un cavatappi assolutamente complicato da usare, e ben presto utilizzato come termine di paragone ultimo di inefficienza e scomodità. Sarà stato di design.
Insomma, un giorno stavo facendo due passi con Zzac per una vietta del paese. L'avevo inconsciamente vista, ma senza prestarci attenzione, una vecchietta che s'era affacciata dalla finestra. Ma lui sì, che l'aveva notata, ed era in grado di tratteggiarne perfettamente le caratteristiche: "Facci caso, hanno tutte lo stesso vestitino a fioroni, la stessa permanente azzurrina (strizzando appena gli occhi e sfregando il polpastrello di pollice e indice, quasi a voler rievocare la sfumatura di azzurrino) e puntualmente hanno uno straccio della polvere sempre pronto per essere scosso fuori dalla finestra, sai mai che ci sia qualcuno da controllare".

E quindi le tendine spione mi hanno risvegliato un frammento di malinconia, scritto e mai cancellato in quell'agenda nuova di pelle nera, la stessa, just the same, che ha messo in rima Tony Harrison.

giovedì 14 giugno 2012

Dialogo sopra un sistema

Ma non era né il tolemaico né il copernicano. Era un banale sistema di due equazioni in due incognite, peraltro determinato, e stavo supervisionando Penny, la ragazzina alla quale do saltuariamente qualche rinfrescata di matematica. L'ansia da esame di maturità sale, e con essa gli svarioni che la accompagnano.
Come ci consigliava paternamente al liceo il professore di fisica e matematica, fin che potete semplificare, semplificate: a moltiplicare e a morire c'è sempre tempo. E niente, in questi mesi in molti e svariati modi ho provato a trasmettere un tale postulato anche a Penny con, devo riconoscerlo, risultati non sempre esaltanti. L'altro giorno, per l'appunto, cercando di risolvere il sistemino trigonometrico, Penny evitava in modo pervicace di fare un qualsiasi tipo di semplificazione, portandosi dietro nei vari passaggi termini e termini che minacciavano di ammutinarsi e fargliela pagare. Fino a che un'insistente vocina dentro di me mi ha convinta a rivolgermi a Penny con un consiglio che, ad avviso sia mio che della vocina, avrebbe dovuto risvegliarle alcuni sani dubbi, portandola sulla strada della riflessione:

Io: Dovresti cercare di minimizzare il numero di potenziali fonti di errori.
Penny (sguardo metà supplice, metà perplesso e metà interrogativo): ...?
Io: ...
Penny: ...
Io: ...cerca di fare giusto.
Penny (rinfrancata): ah, beh, sì!
Io: ...quindi?
Penny: ...?
Io: Raccogli il radicediduecosìcs.


E mi son ritrovata a non sapere se essere più stupita per la sovrabbondanza di metà che componevano lo sguardo di lei, per l'innata propensione che ho nell'usare un numero inutilmente elevato di parole per dire cose altrimenti esprimibili in modo molto più sintetico, o infine per il fatto di trovarmi perfettamente a mio agio con questa mia debolezza.

venerdì 8 giugno 2012

Indefinito circolare

Mi è odioso tutto ciò che mi istruisce soltanto, senza accrescere o vivificare immediatamente la mia attività, diceva, conosciuto anche per questo, prima che una sua frase su una stella che danza venisse ripresa da un altro che fa canzoni su mani e cipolle. E poi si allarga, il primo, con l'idea che nessun vincitore crede al caso, ma cos'ha da dirmi sul resto di mondo, che non si classifica vincitore di alcunché? Che dovremmo vivere in modo non storico, forse, perché la storia non è maestra di niente, magistra di niente che ci riguardi, diceva quello della pioggia sui work in regress.
E allora mi tengo i miei ricordi perplessi, i miei avverbi seriali. Perché all'interno di un sistema finito, in un tempo infinito, ogni combinazione è nelle condizioni di potersi ripetere infinite volte.

mercoledì 6 giugno 2012

Molestie statistiche

"Tu, ragazza ginnica! Tu che fai jogging! Ti posso chiedere una cosa con il sorriso?".
In questo modo mi sono sentita apostrofare qualche sabato fa, mentre tornavo da un giretto mattutino per i colli. Mi piace andarci presto, la mattina: non c'è nessuno, non fa ancora caldo e si sente il martellare del picchio. Malauguratamente al ritorno minacciava maltempo, quindi per far prima ho preso la strada secondaria, che per me corrisponde a quella principale. In genere faccio il giro lungo e appartato, ma per evitare la pioggia mi son vista costretta a passare in mezzo alla comunità umana. E al sabato mattina (o forse anche durante gli altri giorni, chissà) si aggirano per il centro questi personaggi, questi baldanzosi giovanotti che cominciano a puntarti appena sei nel raggio del visibile, e ti si attaccano come la carta moschicida. Il piacere che evocano è lo stesso, ma almeno la carta moschicida è utile contro le mosche.
Una volta con uno non sono stata sufficientemente rapida, quindi gli ho dato modo di articolare grosso modo tre frasi, nelle quali la parola sorriso veniva pronunciata un numero irragionevole di volte. Era qualcosa del tipo: "Ti posso chiedere una cosa, ma con il sorriso, non sono un terrorista, tu hai qualcosa contro i ragazzi che come me hanno fatto un percorso di recupero dalla tossicodipendenza, puoi rispondermi con il sorriso, parliamo serenamente con il sorriso, io mi chiamo Giovanni, posso chiederti come ti chiami, con il sorriso...". E non sto esagerando.
E vabbè, con qualche tecnica estemporanea, dal Togliti di mezzo o ti do fuoco al Ce l'ho già che tanto ci ha dato, in qualche modo ci si libera anche di queste zecche.
Solo che il simpatico parassita di sabato ha fatto anche l'abile mossa di mettersi fisicamente in mezzo ai piedi, sbarrandomi la strada. Purtroppo non ho avuto la prontezza di dirgli: "Sparisci o ti travolgo, non vedi che sono ginnica?" (ragazza ginnica, ma dove li pescano, gli aggettivi? Forse il percorso di recupero dalla tossicodipendenza non l'hanno proprio proprio terminato) e mi sono limitata a scartarlo come un abile terzino professionista, benché fossi tentata dal fermarmi e chiedergli se fosse impazzito, ostacolarmi in questo modo; forse non sapeva che tutte le cattiverie che si dicono sulle persone con i capelli rossi non sono altro che semplici dati di fatto.
Però poi scopro che va sempre a finire nello stesso modo, con me che penso che in fondo un po' gli invidio quella sfacciataggine, quella leggerezza viscerale nel prendere l'iniziativa e rivolgersi a perfetti sconosciuti, senza porsi problemi sul chissà cosa penseranno e quante maledizioni staranno partorendo.

Stamattina in treno c'era un ragazzo che si contorceva in tutti i modi per evitare il sole che, dal finestrino chiuso, lo stava cucinando a fuoco neanche tanto lento. Avrebbe potuto chiedere alla ragazza semiappisolata seduta vicino a lui di abbassare la tendina. Avrebbe potuto, ma non l'ha fatto, forse temendo la reazione di lei nell'essere svegliata, quindi stava lì a soffrire abbrustolendosi. Finché lo spirito di sacrificio è venuto meno, si è allungato per abbassarsi da solo, cautamente, la tendina, e nel farlo ha svegliato la ragazza. Che tuttavia, in quanto appartenente alla società presunta civile, non l'ha colpito con la prima cosa le capitasse per le mani.

Tra l'intraprendente scroccone del sabato mattina e l'impacciato pendolare fotofobo esiste una cosa chiamata equilibrio. Tra l'uno e l'altro forse c'è una distribuzione normale di comportamenti. E a me non dispiacerebbe stare nell'intervallo di due sigma.

lunedì 4 giugno 2012

Eziologia trascendentale

Non ho ancora letto, ce l'ho nella lista dei libri in attesa, Un indovino mi disse. Non l'ho letto, ma so che il titolo prende spunto dal fatto che un giorno, sul finire degli anni Settanta, un indovino vaticinò a Terzani che  nel 1993 avrebbe corso il rischio di morire, raccomandandogli in particolare di non prendere l'aereo. E fu così che, al sopraggiungere dell'anno fatidico, lo scrittore, più per gioco che per paura, trascorse un anno intero senza mai prendere l'aereo, cosa abbastanza insolita vista la sua professione di giornalista. Fece quindi una cosa apparentemente sciocca e frutto di superstizione, benché in fondo io sia convinta che chiunque si sarebbe comportato similmente, ammesso di ricordarsi della profezia a distanza di un quarto di secolo. Ad ogni modo, mi chiedevo come avrà giustificato questa sua scelta di fronte a coloro che gli avranno chiesto perché di punto in bianco avesse smesso di volare. O meglio, mi chiedo come l'avrei giustificata io, immaginandomi nei suoi panni. Bene, sono sicura che avrei detto la verità, evitando accuratamente giustificazioni plausibili del tipo 'Ho paura di volare', 'Gli aerei inquinano un sacco', 'In aereo non riesco a leggere', 'Le file al check-in mi stufano', 'Nel sedile dietro ho sempre il bambino che scalcia' e così via. Il motivo è presto detto: l'interlocutore medio, di fronte a una scusa verosimile, oppone obiezioni a volte interessanti e stimolanti al confronto, ma molto più spesso completamente insulse e banali. Viceversa, messo davanti a motivazioni che trascendano la sfera del fenomenico, tace. Quindi tanto vale rispondere: 'Quest'anno non posso prendere l'aereo perché una ventina d'anni fa un indovino cinese mi ha detto che sarei morto in un incidente aereo, e la maledizione volante scade il 31 dicembre'.

Non mangio carne perché secondo un'antica leggenda inuit le persone con il mio segno zodiacale, il mio ascendente e un neo sopra il ginocchio destro non possono nutrirsi di cose che nella loro lingua contengano la R, la N e la C. I più attenti tra coloro che mi conoscono si saranno accorti che infatti non mangio neanche i ranuncoli né i croccantini per cani. Il castigo da pagare nel caso si decida di andare contro a questo ammonimento purtroppo è andato perduto nelle gelide acque dell'America settentrionale, ma io non me la sento di andar contro le leggende. Specie se antiche. Specie se inuit. Figuriamoci.
E questa è la motivazione che ho deciso di addurre per giustificare un atteggiamento che non dovrebbe richiedere giustificazioni. Però qualcuno che le chiede c'è sempre, ma mi sono sinceramente stufata di sentire sollevare obiezioni talmente idiote da suggerirmi il cannibalismo. Penso di aver toccato il fondo quando l'abile interlocutore A ha osservato che in fondo anche l'insalata è viva. In quella circostanza ho risposto di malavoglia che certamente una pianta è viva, ma non è certo suscettibile di apprendimento. I presenti hanno pensato che stessi dando della pianta al soggetto A. Devo dire che la cosa è stata preterintenzionale, ma in fin dei conti corretta. E comunque A non l'ha colta.
Però basta, basta critiche stupide. Perché in realtà ne esisterebbero di fondate, e alcune di queste sono quelle che sollevo a coloro i quali vorrebbero convincermi che non mangiar carne è una scelta corretta. E non c'è alcuna contraddizione in quello che sto dicendo: è pieno il mondo di gente che ostenta sani principi poggianti sul niente, quindi mi diverto a metterci una piccola carica di dinamite alla base. A meno che, ovviamente, uno non mi dica che lo fa per motivi religiosi: che autorevolezza ho mai io per dirgli che secondo me in quel tacchino non c'è il nonno di suo cognato?

Quindi non mi resta che cercare di redigere dei Protocolli dei Savi Inuit e sono a posto.