giovedì 20 dicembre 2012

Private (5)

Non aveva il coraggio di farlo, il commesso era stato così sinceramente, o almeno così le era parso, lusinghiero nel riconoscere che quell'abito le stava davvero molto bene, eppure lei sapeva che non era per lei, che avrebbe anche potuto comprarlo, farselo impacchettare e portarselo a casa, dove l'avrebbe senz'altro scartato, mostrato al marito che, al solito, l'avrebbe accolto con partecipe indifferenza, avrebbe poi potuto sistemarlo sulla gruccia e metterlo in bell'ordine dentro al proprio guardaroba, peraltro ultimamente un po' sguarnito, doveva ammetterlo, eppure poi non l'avrebbe mai indossato, né per un'uscita informale né tanto meno per un'occasione importante, e se anche si fosse, con notevole forza di volontà, decisa a infilarselo e a mostrarsi in giro così abbigliata, l'avrebbe fatto pagando il caro, inestimabile prezzo della totale sensazione di disagio e inadeguatezza. Eppure non aveva il coraggio di ammettere di fronte al commesso che quell'abito non l'avrebbe comprato semplicemente perché non era per lei, e così, chiusa nel camerino della boutique dove stava cercando di toglierselo di dosso il più velocemente possibile, provava a pensare a quali altre motivazioni avrebbe potuto addurre per giustificare il mancato acquisto. Certo, bello era bello. Era oggettivamente bello, era esteticamente ineccepibile, garbatamente appariscente, senza scadere nel volgare. Questo non l'aiutava, doveva sforzarsi per individuare qualcosa di evidentemente brutto e spiacevole. Il prezzo, certo, non era per nulla economico, ma questo non era mai stato un problema o, per meglio dire, non era mai stato un suo problema, cosa di cui era a conoscenza tanto lei quanto il commesso, quindi non valeva la pena nemmeno di iniziare a batterlo, questo sentiero. E intanto si rammaricava per l'acquisto non ancora compiuto ma che inevitabilmente sarebbe stato fatto di lì a breve. Pensava a chi altri avrebbe potuto godersi quel capo, unico, perché di un capo unico si trattava, se lei avesse avuto il coraggio di ammettere che non era adatto a lei e lasciarlo nell'attaccapanni dove l'aveva trovato.

mercoledì 19 dicembre 2012

Un investigatore che ci deduca l'anima, s'il vous plait.

Puntuale puntualissima, anche quest'anno ho assistito alla scena che negli ultimi anni non si è mai fatta attendere in casa mia. Devo riconoscere che Lamarta cominciava a essere in pensiero, secondo lei si stava un po' tirando per le lunghe, e invece ora ha avuto modo di tranquillizzarsi. Meno male.
Come ebbi a scrivere in un post di circa, appunto, un anno fa, sotto le feste la frase che ritorna tra le quattro mura dove abito non è tanto: "Panettone o pandoro?", quanto piuttosto: "Non mi sembra neanche che sia Natale, quest'anno". A dirla, ovviamente (no, ovviamente un corno, ma per chi avesse letto il post dell'anno scorso l'ovviamente ci può anche stare), è mia mamma. Epperò questa volta, ossia due giorni fa, le ho risposto chiedendole se fosse cosciente del fatto di averlo detto per ogni Natale di cui io abbia memoria. La risposta è stato uno stupito anzichenò "Davvero?". Al suo è seguito il mio, di stupore. Possibile che davvero non fosse consapevole di questo suo leitmotiv invernale? Sì, possibile. Improbabile, incredibile, inimmaginabile, ma possibile.
Quindi ho tentato l'affondo, chiedendole cosa si aspetta dal natale per sentire che è Natale. La risposta questa volta si è fatta un po' attendere. Io nel frattempo cercavo di apparire il meno inquisitoria possibile, ma confesso che la questione mi incuriosiva non poco, stavo creandomi delle aspettative, cosa sbagliata nel 97% dei casi (benché tutti sappiamo che il 78% delle statistiche sono completamente infondate). Perché sbagliata, in questo caso? Perché il dialogo è continuato in questo modo:

- Mah... Si pensava al pranzo, a organizzarlo, a...
- Mamma? Oggi è il 17!
- Ah. Vero. Mah, allora non so.

Niente, non ne ho cavato nulla. Tengo a specificare che nella mia famiglia non c'è mai stata la corsa all'organizzazione di pranzi e cene, figuriamoci con una settimana di anticipo (da cui il mio sbigottimento pensando all'intervallo relativamente enorme che passa tra il 17 e il 25 dicembre).
E quel che è peggio è che ho come l'impressione che da qui a un anno sarò ancora qua che mi chiedo perché mia mamma si aspetti qualcosa che non so cosa sia, che non sa cosa sia, che non si verifica e di cui però lei sente la mancanza.

domenica 9 dicembre 2012

Messa male

A beneficio di coloro i quali non ne fossero a conoscenza, la domenica ciascuna delle parrocchie di una città può autogestirsi negli orari in cui fare la messa, che in genere coprono sia la mattina che il pomeriggio. Ciò comporta che, per esempio, dove vivo io le campane complessive suonino con una frequenza decisamente alta. A mio parere talmente alta che si potrebbe discuterne, ma transeat. Sempre a beneficio di coloro eccetera eccetera, ciascun parroco di ciascuna parrocchia può decidere di celebrare anche una o più messe prefestive durante il pomeriggio del giorno precedente alla festa, quindi al sabato pomeriggio, se stiamo parlando di ordinari giorni festivi domenicali.
E qui si conclude l'antefatto. Veniamo ai personaggi. Al personaggio, perché in realtà è uno solo: mia mamma. Va detto che mia mamma è una persona molto religiosa, molto pia, molto devota, molto superstiziosa, molto paurosa, molto ingenua, molto fiduciosa, e infine discretamente bigotta. Ma lei dice di no.
Bene, anche la descrizione dei personaggi può considerarsi esaurita.
I più attenti tra di noi si saranno accorti, anche solo gettando un'occhiata vagamente distratta al calendario, che il mese di dicembre è popolato in maniera anomala di giorni rossi. Bene, ciascuno di quei giorni rossi prevederebbe che una persona molto religiosa, molto pia, molto eccetera partecipasse alla messa. A quelli ancora più attenti tra di noi non sarà sfuggito che spesso i giorni rossi sono consecutivi. Succede. Quest'anno, per esempio, è successo: l'8 dicembre (giorno rosso in quanto 8 dicembre) cade di sabato, il 9 dicembre (giorno rosso in quanto domenica) cade, per l'appunto, di domenica. E in questa caduta corale, casca anche l'asino: la messa del pomeriggio dell'8 dicembre vale come messa per l'8 dicembre o come prefestiva per il 9? Senza scherzi, questa è la domanda che mi son sentita rivolgere da mia mamma. Ammetto che la mia prima, seppur fugace, reazione è stata di quasi totale disorientamento, da un lato per la domanda in sé, dall'altro perché non capivo per quale misteriosa ragione la stesse rivolgendo a me. Ma stavo sbagliando, non la stava rivolgendo a me: come altre volte ho avuto modo di osservare, mia mamma spesso formula domande ad alta voce che solo apparentemente coinvolgono gli astanti; perlopiù si tratta di flussi di coscienza a voce alta, di ragionamenti che lei sta facendo per conto proprio. In realtà osservando la gente mi son resa conto che questo comportamento è più diffuso di quel che potessi immaginare. Quindi se qualcuno dovesse porre una domanda di questo tipo, la risposta consigliata potrebbe essere un: "Ma ti pare che ne possa avere la più pallida idea?" (trattasi della risposta da me frettolosamente adottata), ma potrebbe essere anche un dignitoso silenzio, infatti la mia risposta è stata bellamente ignorata e travolta dal successivo, angustiato pensiero di mia mamma, secondo la quale dovrebbero essere più chiari in questi casi: io ieri sera sono andata a messa, ma sono andata per quella dell'8 o per quella del 9? Mica ci possono prendere in giro così.
E giusto perché tanto non mi stava ascoltando, mi sono concessa un Beh, sai, in duemila anni hanno accumulato un po' di esperienza.

martedì 27 novembre 2012

Madeleine a 56k

Qualche giorno fa mi è capitato di sentire, proveniente da non so quale porta di chissà quale ufficio, un rumore che assomigliava straordinariamente a quello che faceva il mio vecchio modem a 56k quando, acceso il pc, cercava di stabilire una connessione con la rete. Il rumore mi è giunto inaspettato e mi ha risvegliato ricordi di una dozzina di anni fa, fatti di cavi, di connessioni lente, di pc condiviso con Lamarta, di non mettere allegati troppo pesanti nelle mail ché poi mi pianti tutto, e di svariate altre piccole cose.
Non ero legata in modo sentimentalmente importante a quel modem, per cui il risveglio dei vari ricordi che il rumore ha provocato non mi ha scombussolata particolarmente. Però ho pensato a quanto sia difficile, forse impossibile, mettersi al riparo da quegli eventi che possono scatenare epifanie o memorie che si credevano lontane o si speravano sepolte.

Ho letto tempo fa che, in un esperimento di laboratorio, si è impiantato un elettrodo nel cervello di una cavia. L'elettrodo, in seguito alla pressione di un pulsante sistemato dentro la gabbia dove si trovava la cavia, stimolava dei recettori dopaminergici cerebrali implicati nella ripetitività e nel piacere. Morale: benché nella stessa gabbia fossero presenti anche cibo, femmine e distrazioni varie, la cavia passava il proprio tempo solo a premere il bottone, morendo di fame.

Volevo continuare a pensarti in modo da perdere tutto il resto, credevo di aver trovato l'equivalente del pulsante della cavia, anche se si trattava di quello legato alla nostalgia e alla mancanza. Avrei voluto che diventasse abitudine, in modo da non subire più la madeleine inaspettata.
Ho ottenuto solo che mi manchi, quando ti penso.

venerdì 23 novembre 2012

La cassiera fumava al mentolo

A fare zapping tra i canali della tv mi annoio molto velocemente, un po' perché, a dispetto dell'avvento del digitale, restano comunque un numero tutto sommato limitato, un po' perché tolte le repliche di fiction di vent'anni fa (o anche di dieci anni fa, o anche cinque, o anche repliche del giorno prima, fa uguale), tolti i film ripescati da chissà quale cineteca dimenticata da Dio e dagli uomini, tolte le televendite, tolti i vari talk show proposti in diretta e in differita, e tolti infine i programmi di cucina condotti dalle persone più disparate (talvolta addirittura cuochi, pardon, chef veri o presunti), resta ben poco.
Viceversa, l'apertura di una pagina qualsiasi di wikipedia dà l'innesco a una reazione potenzialmente infinita, perché da quella pagina originaria si dipartono tantissimi altri link annidati e così se, per esempio, mi viene l'idea di controllare se Monsieur de Lapalisse si scrive proprio così, dopo 4 link son lì che mi leggo il concetto di interesse semplice e composto. La mia cultura aumenta di niente, perché in genere non trattengo, però mi incuriosisco e saltello e clicco di qua e di là. Il movente può essere di due tipi: curiosità pura e semplice e spensierata, tipica di quando sto cercando un argomento frivolo, oppure necessità dettata dal fatto che sto cercando di capire una cosa difficile che probabilmente dovrei ricordare da corsi fatti anni fa, e quella cosa difficile presuppone che si conosca a menadito un altro concetto che a propria volta richiama una teoria la quale necessita della definizione di ...
Insomma, tempo fa stavo cercando notizie sui koala. Non saprei dire se il koala fosse la partenza o se fosse piuttosto il nodo n-esimo di un albero la cui radice avrebbe potuto essere il teorema di Fermat o la ricetta del parampampoli. Fatto sta, la pagina aperta era quella del simpatico marsupiale il cui pelo profuma di eucalipto (non lo sapevo). In realtà simpatico mica tanto, perché ho scoperto che è impossibile da addomesticare, non ha confidenza con l'uomo e non può essere classificato in nessun modo come animale da compagnia. Il fatto di venire disturbato da qualche altra creatura gli crea uno stress così elevato che la legge australiana considera come reato ogni tentativo di approccio da parte di un umano. Il koala viene lasciato in pace in forza della legge.
Sono fatta per essere uno di loro.
Quindi sto pensando, per la prossima vita, di reincarnarmi in un koala, per l'appunto. L'unico problema è che questo poco socievole animaletto (poco socievole verso i suoi non simili però, va detto) sta distruggendosi da solo l'unica fonte di sostentamento: mangia solo foglie e gemme di eucalipto (lo sapevo), ma spolpa fino all'osso le piante in questione senza rimpiazzarle con dei validi sostituti (non s'è ancora avvistato un koala piantare un eucalipto).
Ma dico io, s'è mai visto sulla faccia della terra un organismo così poco poco poco sapiens da bruciarsi da solo le proprie risorse vitali?

domenica 18 novembre 2012

L'ansia da bacinella

E così, vuoi perché un po' me l'ero promesso come premio nel caso fosse andato in porto un progetto a cui tenevo, vuoi perché certe cose se non le fai da adolescente le fai dopo ma prima o poi le devi fare, alla fine mi sono fatta fare il piercing sull'elice, contravvenendo peraltro a quanto avevo scritto qualche post fa sul fatto che sì, bello, ma ho paura.
Le (finora) uniche reazioni schifate sono state quelle de Lamarta e di mia mamma. Quest'ultima, in particolare, accusandomi di aver ormai smarrito qualsiasi forma di giudizio, mi rinfaccia tutti i pianti che facevo da piccola quand'era ora di fare un prelievo all'ospedale, per non parlare di quella famosa volta in cui "avevi tre anni e ti eri presa l'influenza e continuavi a vomitare e l'unico modo per farti smettere era farti un'iniezione e ci siamo messi tuo papà ed io a provare a fartela alle due di notte con te che non volevi star ferma e io che pure avevo la febbre e tu che piangevi che non volevi l'ago e sì che non erano mica gli aghi di una volta che quelli sì che facevano male e mi è toccato bucarti due volte perché non stavi ferma e adesso mi arrivi a casa con queste cose e ..."
Le avrei spiegato che allora avevo tre anni, e che in genere adesso anche quando vado a fare un prelievo non mi divincolo sulla sedia urlando e chiamando aiuto, anche perché rischierei un'iniezione di sedativo.
Però mi son messa a ripensare a quand'ero piccola e mi ammalavo. L'immagine più terribile? Non l'incubo che facevo quando avevo la febbre alta (e che faccio tutt'ora, sempre quello, anche adesso che come anni c'è un ordine di grandezza di differenza). L'immagine veramente raccapricciante era quella della bacinella. Sì, la bacinella che veniva messa a fianco del letto quando sentivo che avevo nausea, e mia mamma temeva che non sarei stata abbastanza svelta da raggiungere il bagno. Ho sempre avuto il terrore di vomitare, e quella bacinella mi faceva ansia, mi guardava, io guardavo lei, e ne avevo paura, e lei mi diceva Lo sai bene perché sono qui, per cui mettitela via che stanotte va così, e magari poi la notte passava liscia e io mi svegliavo la mattina con 39 di febbre ma con lo sguardo del guerriero ferito ma indomito che sa che il peggio è passato.

A pensarci, era un po' lo sguardo che ho rivolto alla farmacista che mi ha bucato l'orecchio.

mercoledì 14 novembre 2012

Uno e treno

Stavo pensando all'idea di  perfezione. Senza cercare di far filosofia spiccia, una cosa perfetta è, in buona approssimazione, una cosa completa, che ha raggiunto il proprio scopo (e fin qua basta un po' di etimologia), e tale per cui niente di simile, nel senso di riconducibile alla stessa sfera di appartenenza, potrebbe essere migliore.
Da qui al cercare un esempio di qualcosa di perfetto il passo è stato breve, e dato che stavo guardando fuori dal finestrino e mi sentivo particolarmente lirica, mi son chiesta se la natura (non la Natura, la natura) potesse essere definita perfetta. Credo di no. Perfettibile, questo sì, essa stessa ha pensato bene di continuare a migliorare evolvendosi. Quindi si può pensare che sia intelligente (forse sto parlando della Natura, non della natura)? In effetti una delle definizioni di intelligenza riguarda la capacità di un essere, appunto, intelligente di adattare sé al mondo e il mondo a sé, e dato che la natura è il mondo, beh, chi meglio di lei può adattarsi a sé stessa? Ma se è perfettibile e non perfetta, allora ha ancora degli aspetti sbagliati, o che comunque necessitano di essere modificati, alterati, se non addirittura eliminati ed estirpati. Tipo, per fare un esempio facile, quei quattordici miliardi di piedi che ogni giorno pestano e gravano sul sistema natura - mondo - processo di perfezionamento in atto nonostante. Nonostante i quattordici miliardi di piedi, intendo, e sia chiaro che quella dei piedi è una sineddoche. Perché se si prende un sistema già di per sé stesso non perfetto, che è lì che si arrabatta da milioni di anni per raggiungere l'Equilibrio Supremo, e gli si mette dentro il P-sapiens (dico P perché non so di quanti sapiens possiamo fare sfoggio, ormai. Ah, per precisione matematica, P appartiene all'insieme dei numeri razionali), il sistema non solo non sarà perfetto, ma nel giro di poco tempo sarà messo parecchio male.
Le cose vanno peggio solo se il P-sapiens viene inserito non in un sistema "non perfetto ma in continua evoluzione verso il perfezionamento", ma in un sistema "non perfetto e appagato e statico".
Le ferrovie italiane, sempre per limitarsi a esempi facili, rappresentano un sistema di questo tipo, anche se qualcuno potrebbe obiettare che statico mica tanto, ma cerchiamo di vedere il bicchiere mezzo pieno. Ora, se nel sistema ferrovie italiane si inserisse un rappresentante della categoria P-sapiens che, per ragioni che la ragione non può comprendere, decidesse di alzarsi una mattina e di sfondare un passaggio a livello, beh, il sistema di partenza ne risulterebbe molto indebolito. Ma la debolezza può essere dovuta al fatto che il sistema stesso origina dal P-sapiens? Secondo me no. Secondo me se anche tutta l'organizzazione e le infrastrutture ferroviarie italiane fossero state messe lì da mano divina, perturba il sistema con l'uomo e - zac! - è già troppo tardi.
E tutto mi diventa un po' quasi triste come quei fiori e quell'erba di scarpata ferroviaria che anni fa mi piacevano tanto.

giovedì 25 ottobre 2012

Castagne afgane e ghiande balcaniche

Ieri sera credevo di avere davvero tanto sonno, ma evidentemente mi sbagliavo, perché appena ho spento la luce e appoggiato la testa al cuscino, come per magia o per maledizione, mi sono sentita completamente sveglia e a mente sgombra. Al tempo stesso non avevo nessuna intenzione di riaccendere la luce e mettermi a far qualcosa, sicché mi son concessa un po' di minuti per vedere cosa avevo voglia di pensare, ricordare o immaginare. Ed è riaffiorata un'immagine vecchia di una decina d'anni, di una persona un po' particolare che incontrai un giorno di, appunto, una decina di anni fa. Tanto particolare era il lavoro che faceva che, da sotto le coperte, mi sono ripromessa che oggi l'avrei ricordato con un post.
Nel frattempo stasera ho assistito a un dialogo surreale che mi ha lasciata non poco attonita: stavo cenando con i miei, la tv era accesa sul telegiornale che ha dato la notizia dell'ennesima morte dell'ennesimo soldato italiano in missione in non-mi-ricordo-dove, tanto un posto vale l'altro.

Mia mamma, con aria sentitamente contrita: "Un altro... Ma quando si decideranno a fare rientrare quei ragazzi?"
Mio papà: "Eh..."
Mia mamma, senza soluzione di continuità, con aria ancora altrettanto contrita, senza accennare al minimo cambiamento del tono di voce: "Mi son dimenticata! Non ho controllato se all'ortofrutta avevano già le castagne".

Poi devono forse aver detto qualcos'altro, ma personalmente mi ero sconnessa chiudendo l'audio e pensando a quale cortocircuito sinaptico l'avesse potuta far saltare in modo così repentino da un argomento quale la morte del ragazzo a uno come... Ma non era tanto quello a gettarmi nel totale e raggelato mutismo, quanto il tono di voce ugualmente sofferto. Ugualmente.
E mi son messa a ripensare al ricordo della sera prima. Premetto che non voglio esprimere giudizi su cose che non conosco a sufficienza, nelle quali sono coinvolte persone animate da ideali i più diversi, qualora peraltro degli ideali siano presenti.
Dieci anni fa incontrai un soldato italiano, in Bosnia, che aveva deciso di entrare nel gruppo di coloro che si occupano della ricerca e del disinnesco delle mine antiuomo inesplose. Non era giovanissimo, per lo meno paragonato agli altri militari presenti in quella base. Parlava del proprio lavoro con molta pacatezza, senza sensazionalismi, quasi si trattasse di un'occupazione come un'altra. Forse lo pensava davvero: c'è chi opera a cuore aperto, chi si alza all'alba per fare il pane, chi vende iphone, tutte cose che rispondono a bisogni innati e primari. E c'è chi contribuisce a rallentare di un delta v ridicolo ma non nullo la corsa al disastro (no, non sono depressa, sono serenamente io).
Spiegava, sempre in tono molto pacato, quasi stesse muovendosi anche in quel momento in un campo minato, che quantità irrisorie di tempo e soldi ci vogliano a costruirla, una mina, a fronte delle cifre enormemente più alte necessarie per il disinnesco della stessa, e che attenzioni si debbano prestare costantemente, senza concedere mai un intervallo alla distrazione, e che danni avessero già procurato ai civili e non, e ... Poi, chiaro, ho dovuto lasciare la mia famiglia, non ce la facevano a sopportare questa cosa, come fosse un fatto naturale e inevitabile. Sembrava Elzèard Bouffier, l'uomo che piantava gli alberi di Jean Giono.
In realtà non è andata così, lì al momento non mi sembrava niente del genere, niente di così poetico e positivo, era un uomo in divisa che diceva di aver tagliato i ponti con le persone a lui un tempo vicine, che faceva un lavoro, per quanto insolito, ripetitivo, ripetitivo e stressante e pericoloso, e che parlava in una sera di pioggia in un ambiente idilliaco quale può essere una base militare. Solo che io, adesso, qui me lo idealizzo come una sorta di eroe silenzioso e romanticamente solitario che non pianta ghiande a una a una, ma a una a una dissotterra mine.
Perché va sempre a finire che per quanto sia brutta una cosa che vedo o che vivo, poi passa il tempo e la smusso, la filtro, la camuffo, ne tiro fuori conclusioni che al momento non c'erano. Insomma, la mistifico e àltero.
Ma almeno non penso alle castagne mentre subisco un tg.

domenica 21 ottobre 2012

Che ne dirà Petronio?

Tempo fa consigliai a Napalm un film che consideravo (e considero) apprezzabilmente macchinoso e via via sempre più coinvolgente: è una sorta di matassa della quale a sprazzi si avverte la sensazione di aver trovato il bandolo, per poi ricadere nel dubbio sull'effettiva veridicità di quello che si era creduto di aver capito. E, ça va sans dire, non era un cinepanettone; trattavasi di Memento, di Nolan. Fatto sta, Napalm non riuscì a finirlo, anzi, ne guardò grosso modo una ventina scarsa di minuti e poi abbandonò l'impresa, adducendo come motivazioni il fatto che fosse (sic) noioso e lagnoso. Si potrebbe dire che de gustibus con quel che segue. E sia, diciamolo.
Dopo qualche settimana fu lo stesso Napalm a consigliarmi un'opera di Georges Méliès della quale, mea culpa, non conoscevo l'esistenza. Dopo averla vista, ma senza specificare se mi fosse piaciuta o meno, lo ringraziai per avermela fatta conoscere perché, a prescindere dall'opinione che poi me ne posso fare, mi piace sapere che un'opera esiste, mi piace poter dire di conoscerla. Non rileggerei mai On the road, l'ho trovato terribilmente pesante, eppure penso che vada conosciuto. La cosa è estremamente discutibile, qualcuno potrebbe obiettare che nel tempo speso a leggere (guardare, ascoltare, ...) un'opera che non fa per me, in quel tempo avrei potuto dedicarmi a qualche altra più sulle mie corde. Forse, ma allora resterei sempre sulle mie corde, per l'appunto, e sono corde che a volte trovo stantie.
Dicevo che, senza specificare se il film di Méliès mi fosse piaciuto o meno, ringraziai Napalm per avermelo fatto conoscere. La sua risposta fu qualcosa del tipo figurati, so di aver buon gusto. Ovviamente lasciai cadere la questione, ma devo confessare che trovo un po' ridicoli coloro che si autoeleggono arbitri di eleganza in quanto dotati di buon gusto. Dubito che la signora più larga che alta che si ostina a indossare degli improbabili leggins leopardati lo faccia per portare avanti la bandiera del cattivo gusto, piuttosto credo che nel momento di comprarli abbia pensato che potevano darle un look aggressivo, oppure le sia venuta in mente quella foto mistificatrice vista nell'ultimo Vanity Fair dove, addosso a una modella il cui peso è un ordine di grandezza inferiore a quello della signora in questione, anche i leggins leopardati assumono un cerco qual fascino.
Insomma, trovo che la frase io ho buon gusto sia del tutto inutile, se non addirittura smaccatamente sbagliata e sciocca, e a nulla serve ammorbidirla con un io credo di aver buon gusto. Siamo sempre noi che guardiamo a noi attraverso la distorsione innata e inevitabile che si associa all'autogiudizio.

E poi magari vien fuori che alla corte di Nerone si usavano le toghe leopardate.

domenica 7 ottobre 2012

La ricetta universale

Un giorno, era estate, ero andata a camminare per i colli. Decido di uscire dal sentiero e mi trovo in un pezzo di terra molto grande coltivato a rosmarino. Non saprei quantificare il molto grande, ho sempre avuto problemi a misurare a occhio le lunghezze, figuriamoci le aree, figuriamoci in pendenza.
Ad ogni modo, l'aria era impregnata del profumo di questa pianta aromatica. Faceva davvero molto caldo, non c'era ombra dato che ero in mezzo ad arbusti che a malapena mi arrivavano alla cintura, il sole era in uno di quei giorni in cui sembra che quasi voglia cucinarti.

E per un attimo mi sono immedesimata in un abbacchio e ho avuto la sensazione che un occhio si avvicinasse per controllare che fossi ben cotta.

Cuocere in forno ventilato alla temperatura di 25-30 gradi per qualche decina d'anni.

mercoledì 3 ottobre 2012

Moti d'onde portanti

Poi gli capitava sempre più di frequente di trovarsi a consolare qualcuno, spesso riguardo cose che erano anche i suoi tormenti, però per un certo intervallo di tempo si sapeva in grado di dimostrarsi non certo asettico e impermeabile, ma sicuramente non toccato dal problema, dall'angoscia specifica, se non addirittura in grado di controllare entrambi, e finiva con lo scoprirsi in possesso di un equilibrio e di una lucidità che non conosceva nemmeno lui.
E fortunatamente, pensava, chi ha bisogno di essere ascoltato non è generalmente nella disposizione d'animo migliore per ascoltare a propria volta e farsi carico di qualcosa, e questo è un bene, perché c'è del vero nel credere che chi ascolta davvero poi, almeno per un po', non vuole più parlare, serve del tempo per metabolizzare, pensava, per scomporre, ricomporre e mettere ordine, perché è nell'ordine che metto nelle angosce degli altri che li incoraggio, è nel procedimento rigoroso e dicotomico, benché sinceramente partecipe. Per questo apprezzo, pensava, che non mi si chieda di parlare di me dopo che ho ascoltato, perché si potrebbe fraintendere tanta partecipe razionalità, scambiandola per equilibrio inserito in un quadro complessivo di contentezza.
E in realtà sapeva fin troppo bene che la sola risposta che avrebbe potuto dare a un E tu, come fai? sarebbe stata un arrendevole Esisto, per quel che posso, tacitamente conscio com'era che la frequenza dell'alternarsi dei propri stati d'animo era modulata da un segnale irragionevole.

sabato 29 settembre 2012

Testimonial volontario

Io sono una persona inoffensiva. Questo ovviamente non significa che io sia una persona buona, anzi, tutt'altro, io non sono una persona buona, credo di non esserlo mai stata, ma inoffensiva sì. Diciamo che se fossi stata Kant avrei formulato la famosa frase in modo un po' diverso, qualcosa del tipo il cielo stellato sopra di me, la prima Legge di Newton dentro di me, nel senso che effettivamente tendo a permanere nel mio stato di inoffensiva quiete, qualora non sia soggetta a forze esterne. Se invece le forze esterne ci sono, e a risultante non nulla, allora in genere assorbo. In questo senso sono inoffensiva, tendo ad assorbire, a bypassare la terza Legge del vecchio Isaac. Mi fermo alla prima, rinuncio alla terza. Magari implodo di accidia, ma rimango inoffensiva. La vendetta non la gusto fredda, perché dopo un po' mi dimentico, e vendicarsi di una cosa che non si ricorda più cosa fosse non è il mio forte. Forse il tutto è solo da ricondurre a una pigrizia di dimensioni considerevoli, non lo so, ma il risultato è che non si può avere timore di me.
Ciononostante ci sono alcune sparute persone che hanno la capacità di risvegliare addirittura nella sottoscritta insani e atavici istinti violenti. Una delle ultime che il mio subconscio ha incluso nella lista è una giovin donzella, e non è solo lei a solleticarmi tali sconsiderati e feroci istinti, ma anche tutto coloro che ne parlano. A rigore in questo momento dovrei essere tentata di colpire me con inusitata violenza, dato che per l'appunto sto parlando di lei, ma in questo caso l'atavico istinto omicida si scontra con l'altrettanto primigenio istinto all'autoconservazione, e quindi posso continuare a scrivere. Dicevo, si tratta di una procace ragazza che siede nella giunta di quella regione italiana dove il cielo è così bello quando è bello, e che è recentemente tornata alla ribalta (la giovin donzella, non la regione) per aver sfilato nelle passerelle della città capoluogo della regione stessa, come testimonial per una nota marca di costumi, marca della quale non comprerò mai più alcunché, anche se dovessero includere nel loro catalogo l'Elisir della Suprema Intelligenza, Fortuna e Autostima.
Devo dire che su di me i testimonial delle pubblicità funzionano, mi rendo conto che mi faccio molto influenzare. Qualche anno fa ho cambiato compagnia telefonica solo perché non sopportavo che il mio numero fosse in qualche modo legato ai due personaggi cosiddetti famosi che per così dire recitavano negli spot di quella compagnia. Non avevo particolari problemi con le tariffe, non avevo trovato vantaggiosissime offerte da parte delle compagnie concorrenti, niente di tutto ciò, solo, non sopportavo i due testimonial. E' come con i nomi, ce ne sono alcuni che mi piacciono molto, poi conosco qualcuno di particolarmente insopportabile che guarda caso si chiama proprio così e basta, l'incantesimo del nome è finito. E allo stesso modo ormai il cioccolatino con i cinque cereali è indissolubilmente legato a quella famosissima fiorettista italiana che urla e urla in pedana e poi ammicca a quel premier molto non alto per dirgli che da lui una "toccata" se la farebbe dare, uscendosene quindi con un doppio senso che farebbe disgustare anche il peggior comico del peggior filmucolo della serie più infima. Quindi ciao cioccolatino. Viceversa potrei benissimo comprare quella merendina spacciata per "l'equilibrio giusto tra nutrimento e gusto", e non solo perché la Idem mi piace, ma anche perché quand'ero piccola mia mamma, sostenuta da dubbie teorie salutiste, evitava di comprarla in quanto fonte di conservanti, coloranti e schifezzanti che appena li mangi muori. Purtroppo ora che potrei dirigermi con le mie gambe e con la mia maggiore età e con il mio sonante denaro a procurarmi da sola l'equilibrio giusto tra nutrimento e gusto, purtroppo dicevo sono arrivata in quella fase della vita in cui fondate teorie salutiste mi portano a vedere dentro quegli involucri dosi inestimabili di conservanti, coloranti e schifezzanti che appena li annusi muori. Si tratta anche qui di un caso di vittoria dell'istinto di autoconservazione.
Ma bando ai tergiversi, si stava parlando della giovin regional consigliera. E, poveretta, io non dirò mai una parola contro la sua carriera, in fondo per arrivarci deve aver fatto di quei sacrifici che altro che levatacce antelucane per prendere il treno, altro che esami da preparare, altro che qualsiasi altra cosa, se solo i di lei N orifizi (per un'accurata stima del valore di N si legga Il pendolo di Foucault, U. Eco, edizioni una delle migliaia che ci saranno in giro) potessero parlare, possibilmente dopo apposito collegamento con quel chilo e mezzo di cervello che dovrebbe esserci garantito in fase di assemblaggio, allora forse sì capiremmo quante ne ha passate, per arrivar fin lì.
E che per recuperare tante bassezze non esisterà mai un posto abbastanza alto e prestigioso.


giovedì 27 settembre 2012

Una posa difficile

Una signora stava spiegando a un paio di conoscenti il proprio parere nei confronti di De Andrè, e per farlo ha tirato in ballo Battisti. Quello che stava dicendo era che "De Andrè è sempre De Andrè" - e Parigi è sempre Parigi, avrei aggiunto io - "e non solo le sue canzoni sono belle, ma aveva anche un modo di cantarle unico, tanto che è difficile trovare qualcuno che, provando a cimentarsi, non finisca col fare rimpiangere l'originale. Viceversa, Battisti... Le canzoni di Battisti può cantarle chiunque. Mina canta Battisti? Sì, e la ascolti volentieri".

Ora, che Mina sia un chiunque già mi sembra un'affermazione azzardata. Che le canzoni di Battisti possa effettivamente cantarle chiunque lo è, a mio parere, ancora di più, perché trovo che, nonostante non fosse particolarmente intonato, riuscisse a creare, cantando, un'atmosfera di completo distacco e quasi straniamento. Di disimpegno. Di passavo di qua per caso e mi son messo a cantare una canzone, ma non lo sto facendo apposta. Insomma di naturalezza, che magari poi era studiatissima e meditatissima, non saprei, ma in ogni caso chiunque provi a ottenere quello stesso effetto si ritrova nella situazione paradossale di forzarsi a fare una cosa naturale, come quando cerco di apparire noncurante e disinvolta e finisco col far cadere qualsiasi cosa abbia in mano (generalmente qualcosa che produrrà molto rumore), oppure come quando riconosco da (relativamente) lontano, poniamo da una distanza x0, qualcuno che a propria volta, mi accorgo, mi ha riconosciuta, ma siamo troppo distanti per salutarci e quindi ci si viene incontro fino a raggiungere la Distanza Adatta al Saluto, che indicherò con xDAS, ma nell'intervallo di tempo di percorrenza del tragitto per portarsi dalla distanza x0 alla distanza xDAS non si sa bene dove guardare, o meglio, io non so bene dove guardare, perché a fissare la persona a cui sto andando incontro mi pare di essere in una specie di duello preso da un qualche film western, e quindi dovrei guardare con nonchalance qualcos'altro attorno a me, ma non riesco mai a ricordare come faccio, quando sto camminando e non sto guardando qualcosa in particolare, a comportarmi con questa naturalezza.
Ho provato a "cogliermi di sorpresa" mentre cammino, a tendermi degli agguati facendomi fare finta, all'improvviso, che quel perfetto sconosciuto che sta camminando nel verso opposto al mio e che quindi mi sta venendo incontro sia in realtà un amico che in teoria dovrei salutare una volta raggiunta la distanza xDAS.. Finora è stato un fiasco totale, non faccio in tempo a pensare la cosa che, puf!, ogni disinvoltura sparisce.
Che posa difficile da mantenere, aveva ragione Oscar.

martedì 25 settembre 2012

Il tempo si è offeso e fermato, da allora più neanche un ticchettio

Succede che si rompa qualcosa. Prima funzionava, dopo un tic veniva un tac, con alternanza prevedibile e rassicurante, e rassicurante in quanto prevedibile. E tu facevi parte delle cose rassicuranti, benché non prevedibili, anzi, ogni volta c'era da chiedersi cosa ti saresti inventato.
La situazione in cui mi hai spiazzata di più è stata quando quella che allora era una mia professoressa delle medie, trovandomi in piazza in tua compagnia, ci avvicinò dicendomi che le avevi riportato un nostro dialogo, nel quale non mi facevo problemi a riferirmi a lei come a una cicciona che doveva entrare in aula di profilo per non rimanere incastrata tra lo stipite e la porta. E io avevo undici anni e avrei voluto sprofondare, ma in qualche modo son riuscita a nascondermi dietro Lamarta, presente alla scena e a propria volta, suo malgrado, chiamata in causa. Quando poi ti chiesi perché diavolo glielo avessi raccontato, la tua risposta serafica (e non falsamente serafica) fu che tanto lei lo sapeva che era vero e in fondo, che male c'era?
Era il tuo modo di insegnarmi a non fissarmi su quello che io penso che gli altri pensino che io stia pensando (si proceda ad libitum in questo giochino di scatole cinesi).

Una cosa che ci piaceva fare, oltre a guardare i mondiali di atletica (tu tifavi Merlene Ottey) soffermandoci sui commenti ridicoli dei cronisti, era commentare le pubblicità. Ogni tanto passavamo mentalmente in rassegna quelle recenti che ci venivano in mente, perché alla fine è quasi come parlare di un film, in poche decine di secondi si può riuscire ad annoiarsi, a divertirsi, a infastidirsi e così via. E così in questi giorni pensavo a quanti e quali insulti avresti rivolto alla mente che ha partorito quell'oscenità, quello slogan emetico e disgustoso che è il senza fretta, Limoncetta, al quale si può sopravvivere solo con una seduta di fit boxe, forse.
Ma poi, di punto in bianco, hai deciso di fermarti al tic.

lunedì 24 settembre 2012

Repetita

Questo fatto è successo per lo meno tre anni fa, e senza un motivo apparente mi è tornato alla memoria in questi giorni. Ero in autobus, mattina, un po' prima delle otto, quindi l'orario di picco degli studenti, e in questo contesto ho assistito a una conversazione che aveva del grottesco: a una fermata sale un ragazzino che si accorge che tra la gente aggrappata alle maniglie c'è quello che si sarebbe poi rivelato essere un suo compagno, o un suo amico, o quel che fosse, fatto sta, i due si conoscevano. Il secondo dei due, che d'ora in avanti verrà identificato con il soprannome da me coniato di "Auricolari", ha, per l'appunto, gli auricolari nelle orecchie. I due ragazzi si vedono, si salutano con un cenno vagamente annoiato e senza traccia del minimo movimento da parte di qualsivoglia muscolo facciale. Il primo si fa strada tra la gente e si avvicina all'altro.

Ragazzino appena salito: Come va?
Auricolari: Eh?
Come va?
Auricolari, disorientato: ...eh?
Come va, come stai? Bene, male, sai... Come va?
...tempo di reazione di Auricolari...
Auricolari, disorientato ma un po' meno: Ah... ah, bene.

Fine. E io di colpo li ho visti invecchiare, come se uno strato di fuliggine calasse inesorabile su di loro a ogni mancata risposta alla domanda, rendendoli grigi, vecchi, logori.

Poveretto, il primo. Poveretto? O non se l'è piuttosto cercata? Come gli è potuto passare per la mente di rivolgersi a uno che evidentemente non dimostrava la minima intenzione di staccarsi dal duplice cordone auricolare che lo legava all'ipod?
Lo scambio di battute, o come vogliamo chiamarlo, si è concluso così. Ciascuno dei due ha continuato a mantenere il proprio sguardo vacuo perso verso niente di particolare, ciascuno con quell'espressione inguaribilmente annoiata che va tanto di moda.

sabato 22 settembre 2012

La grande famiglia

Ci sono delle situazioni in cui ci si sente da soli anche se si è in mezzo a tantissima gente.
Ce ne sono altre, viceversa, nelle quali si sente di far parte di un'iperentità nella quale ciascun organismo, inteso come essere umano, è solo una piccola parte, un atomo, una pedina che svolge il proprio ruolo, nella quale ciascuno di noi rappresenta una quota di intelligenza distribuita che solo nell'interazione e nella cooperazione trova il proprio senso e compimento.
Sono momenti di esaltazione, durante i quali viene da sorridere e da abbracciare chiunque ci stia attorno. Ci si sente più forti, e quella forza è data dalla consapevolezza che siamo davvero tutti sulla stessa barca.

Prima stavo guidando per tornare verso casa. Tre automobili di fila, che stavano procedendo nel verso opposto al mio nell'altra corsia della carreggiata, hanno fatto lampeggiare i fanali per avvisarmi della presenza dei vigili di pattuglia con tanto di autovelox.

martedì 11 settembre 2012

Cosa stavo dicendo?

Va sempre a finire che dei discorsi che si fanno io mi perdo sulle cose non essenziali, su quelle casuali, sui riempitivi senza pretese. Questo non significa che io parli verso gli altri piuttosto che con gli altri, o forse un po' è così, ad ogni modo posso dire che questo non significa neanche che mi dia noia parlare con gli altri anche se a ben guardare non significa nemmeno che non me ne dia. Posso però dire che, nonostante me, mi piace molto parlare con gli altri, a volte anche verso gli altri, benché non nutra molta stima per gli altri. Per lo meno non per molti.
Ci vuole in genere molto poco per capire se una persona sta parlando con me o verso di me, e purtroppo nel secondo caso non sempre lascio perdere. O meglio, se sono in coda alla posta e il tipo che ho vicino comincia a parlare verso di me solo per il gusto di parlare verso qualcuno che dia retta e possibilmente anche forza alle sue lagnanze su quanto lenti siano gli impiegati agli sportelli, beh, in questo caso non solo lascio perdere, ma ostento un'indifferenza granitica e un'imperturbabilità olimpica.
Se invece l'altro sta parlando verso di me nel senso che si è in due, uno dei due sono io e l'altro è una di quelle persone che non si curano molto della propria reazione di risposta, allora non lascio perdere per niente al mondo, e mi ritrovo disposta a portare avanti una conversazione completamente inutile.
In genere chi parla verso può essere ricondotto a due macrocategorie, o per lo meno queste sono quelle che sono riuscita a individuare finora: la prima, formata da tutti coloro che parlano tantissimo e che non è possibile interrompere, magari ci si può provare, a volte si riesce a intrufolarsi e a buttar lì una mezza opinione che porterebbe il discorso su altri lidi, ma niente, appena si chiude bocca riprendono esattamente dal punto in cui si erano, a malincuore, interrotti. La seconda, formata da coloro che invece son ben disposti ad ascoltare, ma in genere si fermano al primo significato di ciò che gli si dice, vanno oltre al senso letterale solo con grossissimi sforzi e possibilmente dopo che gli si è fatto notare che quello appena usato è solo un modo di dire, una metafora, una battuta, uno stavo scherzando.
Ecco, io faccio fatica con entrambe le categorie, ma forse tra le due la seconda è la più difficile da gestire. Dovrei iniziare ogni dialogo premettendo che io condivido solo una parte di ciò che dico, il che è anche sempre più vero. E, sì, finisce che mi perdo sulle cose non essenziali, sulla combinazione dei colori delle maglie delle persone che ho di fronte, sul loro linguaggio buono superficialmente ma perché così pedante?, su accostamenti che non avrebbe senso far notare in quel momento, a meno di sentirmi chiedere in tono scocciato se sto ascoltando o mi sto facendo gli affari miei.
Il mio problema è che sto ascoltando, ma il mio cervello esige che ogni cosa gliene ricordi un'altra, sennò si perde.
Devi ricordarmi qualcosa, sennò ti perdo.

domenica 9 settembre 2012

Figura e sfondo

Nelle prossime righe credo che parlerò della Morte. Anzi no, non della Morte, ma della morte, nonostante un tizio che si spacciava per mio professore universitario portasse avanti la teoria secondo cui le maiuscole non avrebbero ragion d'essere. Non ho mai avuto modo di approfondire quanti e quali rancori nutrisse nei loro confronti, tant'è, per me in questo caso una maiuscola fa la differenza.
Ieri sentivo per il telegiornale una donna spiegare che prima di affrontare il mare bisogna conoscerlo, perché, benché molti credano che sia nostro nemico, in realtà può diventare un amico sincero e sicuro. Quindi ho dedotto che stesse parlando non del mare, ma del Mare, e mi son trovata a pensare che se avessi avuto di fronte a me la suddetta persona, ma in carne e ossa e non in semplici pixel, le avrei chiesto che senso avesse parlare del mare (pardon, del Mare) in termini di amico o nemico, come se a lui (esso?) potesse importare qualcosa di chi gli passa sopra (e dentro). In fondo in tante migliaia di anni non abbiamo perso quell'inveterata abitudine di antropomorfizzare tutto, o forse no, non è tanto l'aspetto che ci preoccupa, quanto il carattere e il comportamento. Quindi il mare, che è tanto cosciente di me che ci nuoto dentro quanto io di un transistor a caso del computer con cui sto scrivendo (anzi, molto molto molto meno, per lo meno a me interessa che il transistor funzioni), a sentire la signora di cui sopra dovrebbe essere un'entità che si accorge del rispetto che le viene riservato, e in caso lo giudichi insufficiente potrebbe decidere di riservare una lezione al malcapitato navigante. O qualcosa del genere. O anche molto di più. Non sarebbe molto più semplice considerarlo solo un enorme, smisurato bicchiere d'acqua, solo senza bicchiere, e togliergli quegli assurdi e terribilmente umani connotati?
Ma questo non vale solo per il mare, il discorso si può allargare a tutte quelle cose alle quali siano state associate caratteristiche antropiche completamente fuori luogo. Tra queste cose, come promesso all'inizio, c'è senz'altro la morte.
Da noi (dove per noi intendo l'Italia del ventunesimo secolo) di solito è di genere femminile, veste in total black, talvolta gioca a scacchi, o almeno così ci ha dato a intendere Bergman, anche se per lui era un uomo, è cupa, triste, insensibile, scaltra, meschina e così via. A dirla tutta, se proprio dovessi scendere al compromesso di doverle (dovergli?) riconoscere qualche caratteristica umana, preferirei associarla a quell'immagine materna che ne dà la Allende in alcune sue storie, dove la dipinge come una donna allegra, accogliente, consolatrice e morbida.
Ma in entrambi i casi si tratta di descrizioni fittizie, sarebbe come se volessimo dare un volto e un carattere alla prometafase, per carità, se a qualcuno interessa farlo ne è ben libero, ma tanto sforzo per un processo biologico mi sembra un po' eccessivo e, quel che è peggio, fuorviante.

Una decina di anni fa mi fecero leggere un dramma teatrale che al momento trovai fastidioso. L'ho riletto l'anno scorso e ho rovesciato il mio giudizio, cosa non può fare una traslazione in avanti sull'asse del tempo. Il protagonista, durante una lite, mette a tacere la propria interlocutrice con una domanda che allora giudicai fastidiosamente affettata (Have you ever seen anybody die?), senza contare che lui mi stava antipatico e non poco. Mi ritrovo spostata sull'asse t, rileggo quella domanda e penso che non sarebbe male se venisse chiesta a chiunque, prima di essere sistemato qui, e che il successivo essere sistemato qui dovrebbe dipendere dalla risposta data.
Ma bando ai cavilli, tu mi hai salvato la vita, ora me la devi alleviare.

martedì 21 agosto 2012

La garza

Un giorno il signor Donchi, guardandosi allo specchio dopo la doccia, si accorse che circa alla base dello sterno la propria pelle aveva assunto una singolare trama, tipica di una garza, su una superficie di qualche decina di centimetri quadrati o, per essere precisi, su una superficie di esattamente cento centimetri quadrati, essendo la zona incriminata un perfetto quadrato dal lato di dieci centimetri tondi tondi. Si toccò lievemente con i polpastrelli e le sue dita sensibili percepirono che anche la consistenza rassomigliava a quella tipica di una garza. Per di più appena sfiorava la pelle in quella zona, come per una sorta di cortocircuito nervoso, il suo cervello gli faceva visualizzare proprio una garza, bianca, quadrata, insomma, una comunissima e banalissima compressa di garza.
"Che fai?", gli domandò la moglie, vedendolo indugiare insolitamente davanti allo specchio.
"Niente", le rispose, "mi guardo qua, sul petto. Premendo sento un certo dolorino".
La moglie si avvicinò per vedere meglio. "Che strano, sembra una garza. E proprio vicino al punto dove sei stato operato tre anni fa".
Insospettita, gli consigliò di rivolgersi al medico di famiglia il quale, con bonaria condiscendenza, gli spiegò che la questione era senz'altro fuori discussione, non poteva esserci alcuna correlazione tra l'operazione e quella sorta di bassorilievo peraltro di dubbio gusto.
"Non vorrà forse dirmi che teme che tre anni fa qualcuno abbia dimenticato di rimuovere una garza sterile e che questa se ne salti fuori ora, bella distesa, così, come niente fosse, suvvia!".
"E' che se ci passo le dita sopra io vedo proprio..."
"Signor Donchi, non sia testardo, qui facciamo medicina, mica stregoneria. Evidenza!, analisi!, sintesi e... e... beh, quell'altra cosa. Lei è stressato, è il cambio di stagione".
"Ma il dolorino..."

Insomma, per farla breve, tanto insistette e puntò i piedi che il medico, pur controvoglia, gli prescrisse una visita specialistica urgente. Fu quindi così che dopo cinque mesi il signor Donchi si ritrovò a parlare con il dottor Minotti, il chirurgo che tre anni prima si era occupato del suo caso. Anzi no, al momento della visita venne informato che non proprio di lui si trattava, dato che l'equipe del primario era stata cambiata e il medico che l'aveva operato era stato trasferito. Per cui spiegò il proprio problema a un piccoletto dai modi spicci e determinati il quale, per non perdere tempo, lo fece andare nell'ambulatorio dove un garzoscopio di ultima generazione era appena stato installato. Fu con sommo disappunto che lesse l'incontrovertibile verdetto del garzoscopio: una garza quadrata bianca, dieci per dieci, leggermente ruotata sul piano coronale, era stata dimenticata dentro al signor Donchi.

Non-Minotti: "Signor Donchi, come lei mi insegna queste cose non dovrebbero succedere in un paese civile".
D.: "Lasci stare. Piuttosto, posso chiederle cosa dovrei..."
Non-Minotti: "Ma come lei capirà non posso essere io a prendermi l'incarico di seguire un simile caso. Questo reparto non si occupa dell'asportazione di garze dimenticate. Provi a chiedere alla caposala, saprà indicarle il medico più adatto al caso".
Caposala: "Innanzitutto le dico che un caso come questo non mi era mai successo, quindi bisognerebbe capire a quale protocollo farla risalire. Forse il dottor Ricci..."
Ricci: "Veda, questo è un tipico problema di ruoli. Assumiamo pure, per piacere di conversazione, che io sia disposto a operarla per toglierle quella garza, cosa che in realtà non ho mai detto, badi bene. Ora, chi si assume la responsabilità dell'atto di togliere la garza, di asportarla? Non esiste una figura professionale del genere, nel nostro paese. Al massimo possiamo chiedere a De Angelis, il nostro ferrista".
De Angelis: "Premetto che considererei un azzardo intervenire modificando qualcosa che sia stata fatta sotto la supervisione del dottor Minotti. Se quella garza è stata messa lì, chi ci dice che non ci sia un valido motivo? Potremmo sentire il parere della dottoressa Paolucci, che..."
Paolucci: "Guardi, per come la vedo io, direi che la semplice asportazione potrebbe compromettere quanto fatto in precedenza. Senza contare che io mi occupo da anni di operazioni eseguite utilizzando garze quadrate di lato otto per otto, ma sul dieci per dieci non mi sento di fare pronostici. Un bravo chirurgo che so lavorare con le garze dieci per dieci è il dottor Nicoletti".
Nicoletti: "Purtroppo io mi sono specializzato nel trapianto tra viventi di garze. Lei deve capire che una garza presente nel corpo da tre anni non può essere asportata senza recare danno. Potremmo quindi asportare la sua dieci per dieci, impiantandole una otto per otto, ovviamente non nuova, ma donata da un altro soggetto: in questo modo lei riceverebbe una garza che ha già trascorso un certo lasso di tempo all'interno dell'ambiente biologico, che quindi, per così dire, è stata umanizzata, non so se mi spiego. A questo punto l'esperienza della dottoressa Paolucci potrebbe portarci a una risoluzione definitiva, senza se e senza ma. Le consiglierei comunque, giusto per tagliare la testa al toro, di sentire l'opinione del dottor Mastrangeli, un mago nel suo campo".
Mastrangeli: "Le basi, le basi! Questa TAC è troppo vecchia, l'esame è senz'altro da ripetere. Le consiglio il dottor Brigli, il nostro miglior radiologo".

E fu così che, dopo essere passato anche per il dottor Brigli, che gli consigliò di interpellare il dottor Andrisani, che gli suggerì di chiedere alla dottoressa Bertini, che gli segnalò l'esperienza del dottor Lenzi, che propose di sedersi attorno a un tavolo per studiare l'eccezionalità dell'evento, il signor Donchi venne finalmente inserito nella lista della persone in attesa di trapianto: avrebbe dovuto aspettare che un donatore provvisto di una garza quadrata otto per otto fosse disponibile all'espianto, dopodiché sarebbe tornato dalla dottoressa Paolucci la quale, forte della scuola di specializzazione frequentata a Boston per l'asportazione di garze otto per otto, avrebbe provveduto all'eliminazione.

Il signor Donchi, come è facile immaginare, non venne mai a capo del proprio problema. Morì un giorno, mentre in auto stava dirigendosi verso la Danimarca in compagnia della moglie. Gli avevano detto che là avrebbe potuto consultare un luminare che anni prima si era occupato di un caso simile al suo. Si trovava ancora in Olanda, il sole stava calando, quando all'improvviso sentì una fitta al petto e cominciò a mancargli il respiro. Dato che era in aperta campagna poté fermare l'auto senza perder tempo a cercare aree di sosta. Aprì la portiera, posò i piedi a terra, riuscì a fare pochi passi e si accasciò.
L'ultima cosa che vide fu un grande campo di tulipani colorati, interrotto da una mezza dozzina di mulini a vento.


giovedì 16 agosto 2012

La tasca

Avrebbe voluto potersi disincarnare così da staccarsi da alcune parti di sé, del sé inteso sia come corpo sia come quell'altra cosa. Avrebbe voluto non dover rispondere di parti di sé, in primo luogo delle proprie mani, che gli avevano fatto scrivere ciò che lui ben sapeva, e il fatto che tutto fosse partito dalla propria mente era da considerarsi marginale se non addirittura irrilevante, avrebbe voluto staccarsi dagli effettori finali, visibili e riconoscibili, non certo da un grumo di non-intelligenze distribuite al quale, e questa era una sua idea, si attribuivano o troppe o troppo poche responsabilità.
Era un desiderio che a volte gli si riaffacciava alla mente, forse dopo che quella notte si era svegliato da un sogno dove qualcuno lo prendeva per l'avambraccio, e al momento di aprire gli occhi si era accorto che era la propria mano destra che teneva il proprio avambraccio sinistro, ma nel sogno, e ne era ben certo, la mano era di qualcun'altro.
O forse il desiderio andava fatto risalire a quel giorno in cui, in preda ad uno stato di coscienza alterato per via esogena, aveva percepito di essere cosciente di sé, ma di non controllare il proprio corpo, che pure fino a poco prima gli aveva permesso di girare pagine, di salire scale, di scrivere lettere o calciare palloni ogniqualvolta egli lo avesse desiderato; in quel momento aveva avuto paura, tremava come quando la febbre sale improvvisa e si cercano coperte e coperte, sentiva di non avere alcuna autorità sulla mandibola che gli faceva battere i denti in modo convulso, sulle gambe che tremavano incontrollate, sulle mani che non riuscivano ad afferrare alcunché. A malapena era stato in grado di chiederle aiuto, ma una parte di sé se ne vergognava, continuava a giustificarsi come un genitore che tenti di scusarsi per il figlio irrequieto che non ascolta rimproveri e minacce. Lei però in quel momento non poteva prestargli attenzione, si era girata, l'aveva guardato, ne era ben certo nonostante non riuscisse a mettere a fuoco ciò che lo circondava, si era addirittura avvicinata, concedendogli un momento di illusione, ma aveva giudicato la situazione normale e si era allontanata. Fu in quel momento che perse di nuovo i sensi, perse anche il , ma poi non avrebbe saputo indovinare per quanto tempo.
La sensazione e la cognizione gli erano però rimaste e ora, di tanto in tanto, si ritrovava con quel desiderio inespresso e irrealizzabile, di staccarsi temporaneamente da alcune parti di sé.

Avrebbe voluto non rispondere di parti di sé, in primo luogo delle proprie mani, gli effettori finali di ciò che aveva scritto. Non che se ne vergognasse o che rinnegasse quelle righe, non che fossero più penose di altre che gli era capitato di leggere, anzi, ma quelle che trovava scritte da altri erano necessariamente parziali, non si accompagnavano al ricordo dello stato d'animo di quando erano state scritte. Perché, benché egli non scrivesse mai sotto l'impulso dell'emozione, ma sempre a mente il più possibile fredda e asettica, pure ciò che scriveva derivava da un turbamento lasciato decantare.

Avrebbe voluto staccarsi temporaneamente dalle proprie mani, disconoscerle, lasciare che si muovessero come se non fossero sue. Ma era più semplice nasconderle in tasca.

mercoledì 15 agosto 2012

Compro un aggettivo

Ho la sensazione che la frequenza dell'uso di accostamenti casuali tra sostantivi e aggettivi, nel modo di parlare, nelle canzoni di cantantucoli o presunti tali o nei testi che mi capita di leggere qua e là, stia aumentando in modo incontrollato, e forse stiamo solo diventando tutti dei Quasimodo, ma non so se sto riferendomi al premio Nobel o al gobbo. Tutto ciò mi ha fatto ripensare alle battute iniziali di un film italiano di una ventina di anni fa, genere commedia (non cito il titolo perché lo trovo troppo brutto), nel quale due dei protagonisti polemizzano e litigano esattamente su questo tema. Sono andata a cercarmelo:

Lui: Sappi che non mi piace neanche quando dici che un'insalata di pomodori è simpatica, che un succo di frutta è geniale, che un alimentari è pazzesco e un film è scomodo, va bene? (...) Basta che provi a invertire, perché un alimentari può essere scomodo, un film geniale, e un'insalata di pomodoro può essere buona, cattiva, fresca, marcia...ma pazzesca no, e nemmeno simpatica, hai capito?
Lei: Stronzo.
Lui: Ecco, questa è un'espressione figurata corretta, magari un po' volgare, ma non c'è bisticcio lessicale, e nemmeno arditezza semantica.

Troverei utile che questo breve dialogo venisse inserito come nota a pie' pagina nella definizione di sinestesia, in modo da evitare quei tentativi malriusciti e patetici che si fanno da liceali nella convinzione di essere poetici. E fin che ci si limita all'adolescenza si è ancora in un contesto di errore umano, ma se si dilaga anche negli anni successivi, si incorre in una diabolica perseveranza.

venerdì 10 agosto 2012

Assente di me

Lo sapeva bene, Adeline Stephen, che quanto poco, tutto compreso, si può raccontare della propria vita. Eccomi seduto qui, lei è seduta lì; ambedue, non ne dubito, pieni zeppi delle più interessanti esperienze, idee, emozioni; eppure, come comunicare?, quindi se non mi viene spontaneo il comunicare non è per aristocratico distacco, o forse anche per un po' di quello, faccio fatica a mettermi a fuoco, ma è soprattutto perché, nonostante sappia che le differenze sono fonte di arricchimento, so anche che ad un certo punto il fondo cassa della diversità comincia a languire e non voglio parlare delle cose di cui parlano tutti, perché non mi interessano, e non mi si chieda se il motivo per cui non mi interessano è che ne parlano tutti, o se non sarebbe invece il caso di invertire il rapporto tra causa ed effetto, ammettendo l'evidenza che la circostanza per cui tutti parlano di un certo argomento sia sintomatica del fatto che quell'argomento non mi interessa, o meglio, non mi interessa più.
Quindi se vedi che mi trincero dietro al libro di turno, chiediti se non sia perché io con la solitudine mi trovo in discreta compagnia, dopodiché ragiona pure sul paradosso implicito, ma non pensare che io sia persona degna di confronto dialettico solo perché leggo, e qualora tu lo pensassi vedrò di fornirmi della sovraccoperta del libro della Clerici e di Vespa (dove il tutto è ancora una volta più della somma delle singole parti, nel senso che la sensazione di brutto che l'accoppiata mi risveglia è maggiore dell'unione delle analoghe reazioni che avrei pensando ai due separatamente. E non mi si dica che dovrei leggere la loro opera sperabilmente ultima prima di giudicare, perché so che dovrei farlo ma non lo farò) così penserai che leggo robaccia e mi lascerai stare. In realtà io so benissimo che non potrei mai farlo, che non ce la farei mai a farmi vedere in pubblico con certa produzione in mano, perché per quanto faccia l'indifferente e l'emancipata, alla fine devo sempre fronteggiare la consapevolezza che mi faccio condizionare da cosa staranno pensando.

lunedì 6 agosto 2012

Il dubbio

Era salita dopo che io mi ero già accaparrata uno dei pochissimi posti liberi. Ormai non ce n'erano più, e la gente cominciava a far fila nel corridoio, tra i sedili. Non l'ho notata subito, dato che mi ero già messa a  leggere. Ma alzando gli occhi l'ho vista, a un metro da me, in piedi.
Forse avrei dovuto alzarmi e cederle il posto, la cosa non avrebbe rappresentato un problema, ma se poi lei si fosse offesa? Offrirle il mio posto non equivaleva forse a dirle che la consideravo anziana? Cosa che a rigore non dovrebbe rappresentare un'onta, o forse la penso così perché al momento si tratta di un problema che non mi riguarda, ma in ogni caso quante sono le persone che non vogliono far sapere la propria età? E se io ora mi alzassi e le dicessi Prego, signora, si sieda pure al mio posto e lei interpretasse il mio gesto di attenzione come un riconoscimento della sua età, meglio, della sua presunta età, per di più davanti a decine di persone, come reagirebbe?
Prevedevo tre possibilità: la prima, lei accetta, mi ringrazia, sorride, si siede, io raccolgo sguardi di approvazione, mi sento migliore, migliore di tutti costoro che se ne stanno comodamente seduti e non si accorgono o non si interessano del proprio prossimo, e la giornata acquista il senso che prima non aveva. La seconda: lei si irrigidisce impercettibilmente, evidentemente offesa dalla mia proposta, ma per evitare piazzate e con un rapido bilancio tra costi e benefici (tutta questa gente si è accorta che sono vecchia VS mi siedo e appoggio le due borse) accetta la mia proposta, io raccolgo sguardi di approvazione ma un alito di amarezza mi soffia sul collo, e dato che sono in treno dubito si tratti dell'aria condizionata. La terza: lei si irrigidisce platealmente, mi chiede perché mai dovrebbe essere lei a sedersi quando ci sono tante persone evidentemente più in difficoltà, senza contare il fatto che lei non ha il minimo problema a viaggiare in treno in piedi con due borse e trentacinque gradi, che è abituata a ben altro e non ha certo bisogno di una ragazzetta impertinente che trovi un modo così sgradevolmente ossequioso per insultarla. Questa reazione, a propria volta, avrebbe portato a molteplici conseguenze possibili, per esempio una divisione degli astanti in due gruppi, chi a favore mio e chi a favore di lei. Oppure lei che continua a lamentarsi e a farmi presente che per esempio sarebbe stato più indicato offrire il posto a quella signora incinta vicino al ragazzo con la maglietta a righe, ma a questo punto la signora incinta avrebbe potuto girarsi con uno sguardo degno di Medusa e urlarle contro che lei non è affatto incinta, qualcuno sta forse dicendo che è grassa?
Che fare? Provo a studiare il soggetto: sembra un'istitutrice, o la direttrice di un collegio femminile d'altri tempi, con quei capelli grigi raccolti in un severo chignon, la longuette beige con il cardigan leggero in tinta, gli occhiali dalla montatura importante ma sobria e le décolleté con l'austero tacco basso e largo. Che età potrà avere? E possibile che nessuno si alzi al posto mio? Che stiano facendo tutti il mio ragionamento? Oh, le suona il telefono, ora parlerà e dalla voce capirò per lo meno che... Niente, ha detto solo che sta arrivando, non ho capito niente di tutto quello che avrei voluto. Che fare, che fare? Mi alzo e rischio? Resto qui e fingo di non averla neanche notata? In fondo ho ancora gli occhiali da sole, benché stia leggendo. Mi alzo e...?
Oh, la mia stazione, mi alzo.

domenica 5 agosto 2012

Perché non discendiamo dalle scimmie

Mi sembra lampante, ma forse non lo è: non discendiamo dalle scimmie perché discendiamo evidentemente dai cani e dai gatti. Non entrambi contemporaneamente, va da sé. Qualcuno discende dagli uni, qualcuno dagli altri.
Se sto passeggiando e passo davanti alla casa nel cui giardino sia presente un cane, questo prenderà ad abbaiare in modo più o meno minaccioso, a correre avanti e indietro lungo la siepe o il cancello di recinzione, insomma, a farmi capire che sa della mia presenza e che ci tiene a informarmi della propria. Lo stesso dicasi se il cane in questione non si trova rinchiuso, ma gironzolante per strada con o senza padrone. Sì avvicinerà, magari con qualche abbaio, con qualche scodinzolo, manifestando un desiderio irrefrenabile di giocare, o di attaccarsi alle caviglie, o di offrire la propria compagnia da ora a per sempre.
Un gatto a malapena alza la testa, ma in linea di massima resta comodamente sdraiato e nullafacente. In rari casi, e solo se già stava camminando per conto proprio, si avvicinerà, magari strusciandosi pigramente sul polpaccio, arrotolando svogliatamente la coda. Ma poi basta.

E la sottoscritta? Più felide o più canide?
Non posso essere io a rispondere, soprattutto se non ho evidenze scientifiche. Ho pensato pertanto di procurarmele, queste evidenze, queste prove incontrovertibili, e cosa ci potrebbe essere di meglio di una ricerca alle basi più prime, ossia al mio DNA? Quindi ho deciso di procedere con il sequenziamento. Mi sono procurata il materiale necessario: una lente, una pinzetta, della colla e un capello. Mio. Poi però ho pensato che è come quando decido di fare la torta di mele, c'è sempre la zia / nonna / vicina di turno che conosce il trucco per farla meglio. Allora ho preso il telefono e ho chiamato la Rita Levi per chiederle qualche consiglio da donna navigata. E' stato molto utile, mi ha detto di procurarmi la piperidina in un negozietto dove va sempre anche lei, e di dire espressamente al proprietario chi è che mi manda. E poi, il trucco della persona di esperienza, si è raccomandata di usare il nastro biadesivo, sennò poi i pezzi si mescolano e non si capisce niente.
Il biadesivo, chi ci avrebbe mai pensato? Così ne ho comprato parecchi rotoli, bianco, colorato, in tinta unita, con dei disegni. Poi sono andata nel negozio che lei tanto mi aveva consigliato. Il proprietario, una via di mezzo tra Albert Hofmann e Panoramix ma col camice bianco e la matita appoggiata sull'orecchio, mi ha accolta con un sorriso ambiguo. Gli ho detto cosa cercavo e chi mi mandava, ha strizzato un occhio e mi ha detto che aveva quello che faceva per me. A me ne bastavano un paio di etti, purtroppo però aveva solo confezioni da mezzo chilo, ma mi ha fatto presente che in ogni caso avrei potuto poi usarla anche contro le formiche e per il mal di stomaco.
Sicché me ne sono uscita col mio mezzo chilo di piperidina e la vaga sensazione che mi avesse presa in giro, sensazione che s'è esacerbata quando ho visto che le formiche continuavano indisturbate il loro andirivieni anche se le cospargevo di piperidina più di un pandoro con lo zucchero a velo.
Non ha importanza, non divaghiamo, a me serviva per altri scopi, e per quelli posso dire che le cose stavano procedendo abbastanza bene. Infatti avevo chiesto a prestito la camera oscura a un mio amico fotografo. Ho srotolato e attaccato biadesivo sul tavolo, e un po' anche sul pavimento e sulle pareti, per sicurezza. E poi ho cominciato.
La prima base che mi son trovata tra le mani era una guanina, bella grande, con tutti i suoi azotini al posto giusto. Poi è stata la volta di un'adenina, che ho diligentemente attaccato al nastro adesivo. Poi ancora una coppia di timine, piccoline ma ben proporzionate. E qui, complice la scarsa luce o quel vago mal di stomaco (il vecchiaccio mi aveva proprio buggerata), ho interrotto il lavoro e mi sono acciambellata a dormire sul divano.

venerdì 3 agosto 2012

Decisions and revisions

Una volta ho odiato una persona. Avevo diciannove anni. Poi ho smesso.
Non mi sono sentita migliore o peggiore, non ho deciso io che era il momento di finirla.
Ho solo smesso.

lunedì 30 luglio 2012

Constatazione di sinistro

Ventitré, se la memoria non mi tradisce. Ma dato che sta prendendo la spiacevole abitudine di perpetrarlo di frequente, il tradimento nei miei confronti, potrei azzardare anche un venticinque. Mi riferisco alla conta delle persone alle quali mi è capitato di dare, in modo più o meno saltuario, qualche lezione di matematica. Dalle medie all'università comprese, il campionario è abbastanza vasto: ragazzi e ragazze, timidi e arroganti, svogliati e menefreghisti ma a volte anche svegli e interessati, a volte disperatamente ignoranti, a volte fieri di esserlo. Solo una cosa accomunava tutti, a parte l'iniziale ritrosia per la materia: erano tutti destrimani. Nemmeno un mancino. Zero.
Ne sono sicura? In fondo da dodici anni a questa parte potrei sbagliarmi, me ne rendo conto. Eppure sono ben certa che nessuno di loro scriveva con la sinistra. Siamo un po' fuori dalle statistiche: se è vero che il dieci per cento circa della popolazione è mancina, dovrei aver avuto per lo meno due esemplari e mezzo di questa minoranza. Sono disposta all'arrotondamento, mi sta bene anche un due e rinuncio al mezzo, ma anche in questo modo non ci siamo.
Bene, veniamo alle conclusioni che non si possono trarre da tutto ciò.
  • I mancini sono più svegli in matematica. Sbagliato, il campione resta comunque troppo basso.
  • I mancini sono più svegli in matematica. Sbagliato, magari sono solo più indifferenti all'abbonamento al quattro sul registro.
  • I mancini sono più svegli in matematica. Sbagliato, il campione è geograficamente troppo ristretto. Dato che in parte il mancinismo ha pure basi genetiche, potrei pensare che nel contesto geografico dove vivo la minoranza sia ancora più ristretta. Dopotutto dieci per cento è una media fatta su chissà che campione. Magari qui da me sono il tre per cento, o il due, o il settantasette, e io ho beccato gli altri ventitré.
Ovviamente ci sono anche delle conclusioni alle quali è invece lecito pensare.
  • Si tratta di un semplice caso. Ventitré (venticinque?, ventotto?) persone, tutte destrimane. Beh, succede, non c'è di che stupirsi. La settimana scorsa stavo facendo la spesa, arrivo in cassa e il conto risulta essere di 26,00 euro, tondo, senza l'ombra di un centesimo. La cassiera si sorprende e mi rivela tutta la propria meraviglia. Io avrei voluto risponderle che non c'era proprio niente di cui stupirsi, si tratta di mera probabilità, come se al lotto uscisse la combinaz...

    Cassiera: La fa la raccolta dei punti?
    Io: ...
    Ma ormai mi ero guadagnata la sua simpatia, con quel 26,00 che non s'era mai visto prima.
  • E' stata comunque una fortuna, dato che mi sarei continuamente distratta. Mi piace osservare i mancini mentre scrivono, e contemporaneamente perdo ogni interesse per il cosa stiano scrivendo. Ossia, se mi si chiede di prestarvi attenzione, posso dedicarmi anche al contenuto, ma di base è il modo ad attrarre il mio interesse. E la cosa non avrebbe portato ad alcunché di buono.

    X: Non riesco a risolvere questo limite...
    Io: Ok, prendi un foglio e scrivi cento volte: Non riesco a risolvere questo limite.
    X: Ma è solo che non so fattorizzare...
    Io: Cento volte, scrivi.
    X: ...il denomin...
    Io: Adesso.
Ma ho scoperto che in agosto esiste la giornata mondiale dei mancini, e che in giro nella rete ci sono siti fatti da mancini che raggruppano mancini, e dentro ci sono blog nei quali i mancini possono scrivere le proprie esperienze di mancini, e quindi mi sono voluta intrufolare da profana in questo mondo sinistro. E ho scoperto che c'è gente che si dichiara orgogliosa di essere mancina. Orgogliosa? Sì, orgogliosa. L'ho riletto, non ci credevo, ma l'aggettivo era proprio orgogliosa. Boh. Mi chiedo quale sia il motivo. La soddisfazione di far parte di una minoranza? Sai che gioia. Io ho i capelli rossi, ma non sono orgogliosa di averli. Sono contenta che siano rossi perché mi piacciono, ma non è che ne sia orgogliosa. Voglio dire, perché dovrei andar fiera di una cosa che non è dipesa da me?
E poi ho pensato che se fossi stata rossa e mancina qualche manciata di centinaia di anni fa, beh, forse sarei qui a raccontarlo. 

domenica 29 luglio 2012

Storie di sottofondo - istruzioni

Si prenda un momento in cui sia percepibile un inizio o una fine, banalmente un'alba o un tramonto, preferibilmente silenziosi, e si pensi involontariamente che a qualcosa di nuovo vengono ora date delle opportunità, o che questo stesso qualcosa le ha avute, le opportunità, un tempo.
Si accompagni il raccomandabile silenzio con una musica adatta, ma al contempo involontaria, sufficientemente non impegnativa e sufficientemente al di sopra di ogni sospetto. Una Mothers of the night di Moby andrebbe già bene, ma è solo un esempio.
Si eviti la presenza di persone e telefoni. Al bisogno, si versino tutte le lacrime che la situazione richiede. Sono concessi i singhiozzi.
Fatto ciò ci si procuri un bagno e si proceda con abbondante acqua fredda sul viso.
Infine si esca a bere uno spritz con un numero di persone se possibile compreso tra il quattro e il nove. Se più di nove si presti attenzione al rischio di distrarsi e ragionare per conto proprio. Se meno di quattro si ponga prudenza a non cadere nella tentazione di parlare di quanto successo prima, sarebbe un errore madornale, specie dopo tanto impegno.
Sarebbe come preparare in modo magistrale un perfetto soufflé, e poi aprire il forno mentre lo si cucina.

lunedì 23 luglio 2012

La linea gialla

Nella mia personale classifica della sgradevolezza, un posto di sicuro riguardo è occupato da quelle situazioni in cui una persona semisconosciuta cerca di intrattenermi nella convinzione di volermi spiegare una cosa che a me dovrebbe interessare particolarmente, e sulla quale io evidentemente desidererei senz'altro essere illuminata. Ulteriori punti di fastidio vengono ad aggiungersi nel caso la persona in questione accompagni il proprio straparlare con quella malsana abitudine che prevede di toccare l'avambraccio del proprio interlocutore, che sarei poi io, magari dicendo un lascia che ti spieghi al quale il mio sistema simpatico dovrebbe rispondere da par suo, richiamo d'emergenza di sangue ai muscoli, peli rossi dritti, tensione muscolare e battito cardiaco pronti al picco di massimo e via, attacco o fuga, e sarei anche disposta a rinunciare alla prima opzione, perché in questi casi l'unica risposta veramente salvifica è la ritirata, dignitosa o meno, non è importante. E invece, nonostante la natura ci abbia forniti di questo e di altri lati animali, le convenzioni e l'educazione e le abitudine e innumerevoli e riprovevoli inibizioni ci portano a comportarci in modo completamente diverso dall'opportuno, e a una provvidenziale fuga preferiamo una serie di imbarazzati sorrisi di circostanza accompagnati da vari eh sì nei quali ci sforziamo di inserire un'intonazione che trasmetta la nostra voglia viscerale di interrompere la conversazione ma, vuoi perché nel frattempo siamo troppo presi a convogliare tutta la nostra volontà a livello di muscolatura facciale per mantenere un'espressione amichevole, vuoi perché l'interlocutore è del tutto assorbito ad ascoltare il suono della propria voce per prestare attenzione a qualsiasi altro evento circostante, la conversazione prosegue per tempi indefiniti.


In farmacia, striscia gialla per terra a segnalare la distanza di cortesia da mantenere quando non è ancora il proprio turno. Una di quelle cose che dovrebbero essere così scontate da non richiedere tali apparenti vezzi da interior designer, ma così è. Aspetto, nel frattempo due farmaciste seguono due clienti. Uno dei due, un non giovanissimo biondo allampanato in maglietta e pantaloncini corti che vedo solo di spalle, parla particolarmente sottovoce. Penso che stia chiedendo consigli e pareri su problemi evidentemente delicati e mi sforzo ancora di più per distrarmi leggendo la lista dei test delle intolleranze che si possono richiedere, stando ben attenta a distrarmi anche da questa distrazione, sennò comincio a sentire tutti i sintomi, quindi provo a distrarmi buttando l'occhio sulla scansia dei solari e poi su quella adiacente dei prodotti per neonati e poi... Insomma, la distrazione ricorsiva svolge al meglio il proprio test per il latte compito, riesco a non sentire quello che il biondo anti UVA non giovane sta chiedendo test per le farine con un riserbo d'altri tempi crema mais e tapioca, cos'è la tapioca?. Sono affari suoi, non test per i lieviti voglio sentire doposole nutriente all'olio di tapioca. Se non che  ad un certo punto test per il cioccolato, pur senza volerlo, sento che dice che Sono tutti succubi della Merkel, al che chissenefrega del test per il caffè o della tapioca, voglio riuscire ad ascoltare tutto, maledetta striscia gialla. E mi accorgo della faccia sofferente e del sorriso tirato della farmacista, poveretta, che non sa come uscirne viva. E lo spilungone che persevera, che Basta che la Merkel dica una cosa e son già tutti in ginocchio, tutti con questa paura della Germania. Mi aspettavo un è ora di finirla!, ma mi rendo conto che sono esigente. Qui la povera donna ha avuto una reazione sbagliata, anzi, direi la reazione sbagliata, e ha provato a far ragionare il Churchill della bassa padovana facendogli notare che in fondo non siamo in una situazione che ci consenta di essere noi a imporre condizioni. 
Quanta ingenuità, quanto dilettantismo da parte sua, quanta delusione da parte mia, quanto rinvigorimento da parte del logorroico cliente. Ognuno insomma aveva il proprio ruolo, e ormai lui s'era calato anima e corpo nei panni della guida.
Ma noi siamo Italiani! E noi Italiani una cosa abbiamo nel nostro patrimonio genetico: l'America, l'abbiamo scoperta noi. E dovrebbero ricordarselo. Siamo stati noi, con Colombo.
Ormai la stupida striscia gialla poteva anche fare a meno di esistere, tanto il tipo s'era talmente infervorato che probabilmente lo sentivano anche al di qua della striscia i clienti dell'altra farmacia, quella a dieci minuti a piedi.
Quindi ora credo di poter dire che c'è del sangue di Colombo che scorre nelle mie vene, che tra le mie doppie eliche ci sono pezzi non di America, ma di scopertadellamerica, e credo anche che ci sia un qualche centinaio di milioni di persone che non mi hanno ancora ringraziato, ma sarebbe ora che qualcuno glielo dicesse che se non fosse per noi, loro sarebbero ancora là ad aspettare che passi qualcuno a venirli a scoprire, a non sapere che farsene di tutto quel mais se non c'è neanche un cinema, e a chiedersi che scopo abbiano mai i tacchini, dato che non ci sarebbe un giorno in cui ringraziare.


Quando sono uscita, lui era ancora dentro che ammaestrava la farmacista.
Scusateci, tacchini.

martedì 17 luglio 2012

Chiuso, adiabatico, isolato.

Pochi oggetti sono ad altissimo indice di potenziale fastidiosa pateticità come le scatole contenenti ricordi piccoli, dove con piccoli intendo di scarso valore oggettivo. Ognuno dovrebbe averne una, di scatola dei ricordi, verso la quale dovrebbe essere obbligatorio dimostrare una smodata gelosia da giustificarsi col fatto che gli oggetti raccolti e conservati in essa susciterebbero la totale indifferenza, o al più un tiepido sorriso di condiscendenza qualora venissero mostrati ad altri, i quali manifesterebbero la stessa partecipazione di quando si cerca di descrivere un sogno o di spiegare una battuta a qualcuno che non l'abbia capita.
Inevitabilmente un biglietto d'aereo ormai scolorito, una biglia, l'ingresso stropicciato a una mostra, un accendino consumato, un petalo secco è bene che se ne stiano relegati e nascosti sotto un coperchio, così da non essere visti da occhi estranei, ma in certi casi neanche dagli occhi di chi ha scelto di metterceli, sotto quel coperchio.

A causa del cambio di un armadio ho risistemato la mia camera.
E nella scatola ho scoperto che manchi, e che mi manchi.

domenica 15 luglio 2012

Sul tuo collo di pelliccia

Mi avevano raccontato che Turner, viaggiando su un treno durante un temporale particolarmente violento, aveva deciso di sporgersi dal finestrino e s'era fatto un bel pezzo di viaggio in questo modo, cercando di imprimersi bene in mente l'immagine che aveva di fronte, cercandone l'essenza, per tradurla in un'opera dove poi il senso della velocità l'ha reso con forme inafferrabili e prive di contorni.
Personalmente quel dipinto lo apprezzo ma senza strapparmici i capelli. Piuttosto mi incuriosiva la scena di un viaggiatore che si fa chilometri sporto dal finestrino, verosimilmente accompagnato da gente che si lamenta e gli chiede se è pazzo a volersi prendere una broncopolmonite, signore, sia ragionevole, stia seduto e chiuda immediatamente, non si accorge che piove dentro, non vedo come la cosa avrebbe potuto svolgersi diversamente, a meno che non le trovi tutte io le piaghe che non sopportano un po' di ossigeno che, da fuori, renda un po' meno irrespirabile l'aria a volte ammorbante che c'è dentro certi vagoni.

Ero in auto e avevo davanti un pick-up. Era una mattina soleggiata dal piacevole clima primaverile. Insomma, le condizioni al contorno erano quasi fastidiosamente ideali. Sopra al cassone posteriore del pick-up c'era un cane, non saprei dire che tipo di cane, potrei dire una via di mezzo tra un cocker e un labrador, nel senso che non era nessuno dei due ma aveva, di questi, il muso simpatico e le dimensioni del Cane, della mia idea di cane. E si sporgeva ora dal lato destro, ora dal sinistro, e il vento gli faceva svolazzare le orecchie pelose (più da cocker che da labrador), e continuava a cambiare lato, sembrava che si divertisse come poche volte nella vita, credo che se avesse potuto dire qualcosa alla persona che stava guidando, l'unica cosa sarebbe stata: Dai gas, dai gas che mi diverto!

E se fosse stato mio avrei saputo come chiamarlo.
Il cane Turner.

lunedì 9 luglio 2012

L'insieme non vuoto degli insiemi vuoti.

Non sopporto un sacco di cose, e benché riesca ad essere molto molto clemente con i cori russi e il free jazz punk inglese, non riesco tuttavia ad essere altrettanto indulgente con tutti quelli che sfornano frasi che cominciano con Le persone si dividono in due categorie: ... A meno che si chiamino Oscar Wilde. 
Per quel che mi riguarda, credo il numero di categorie in cui potrei suddividere l'umanità si aggiri, a spanne, sulla mezza dozzina di miliardi. Sì, tutti così speciali, tutti in punta di piedi per vederci meglio, quindi di nuovo tutti allo stesso livello iniziale (leggere Manzoni non è stato del tutto vano).
Eppure qualche macrocategoria dovrà pur essere ricostruibile, qualche, per quanto esiguo, tratto comune. Bene, io procederei in questo modo: ci sono
- quelli che raccontano un sacco di roba di sé e hanno un sacco di roba da dire; 
- quelli che raccontano un sacco di roba di sé benché non abbiano niente da dire ma hanno problemi col silenzio;
- quelli che raccontano un sacco di roba di sé benché non abbiano niente da dire ma non se ne rendono conto e pensano di stare dicendo cose interessanti;  
- quelli che non dicono niente di sé perché non c'è niente da dire e se ne rendono conto; 
- quelli che non dicono niente di sé perché pensano che agli altri non interessi;
- quelli che non dicono niente di sé perché è troppa fatica;
- quelli che non dicono niente di sé benché abbiano un sacco di cose potenziali; 
- quelli che non dicono niente di sé perché vorrebbero dire qualcosa, ma nei paraggi c'è un esponente di uno dei primi tre gruppi citati;
- quelli che non dicono niente di sé e punto.



lunedì 2 luglio 2012

...so many well-bred commonplaces

In fondo questo pianetucolo da provinciali dell'orsa minore non sarebbe poi così male, se non fosse che bisogna condividerlo, e passi che tocca starci assieme alle zanzare e ai piumini dei pioppi, il problema sta altrove.
Stasera ero in treno, stavo tornandomene a casa seduta in una carrozza piacevolmente semivuota (l'avverbio non fa riferimento al semi-, giusto per fugare ogni dubbio), circondata da tre posti altrettanto piacevolmente liberi. Risucchiata nel libro iniziato di fresco, ero solo vagamente consapevole della voce di sottofondo che diceva cose qualche sedile più in là.
Stiamo per entrare nell'ultima stazione prima di quella dove scendo, il treno comincia a rallentare ma all'improvviso si ferma con una frenata degna del peggior film d'azione. Stupore. Sguardi attoniti. Rumore di pentola a pressione, cosa alquanto bizzarra, devo riconoscerlo. Controllore solerte che corre per il corridoio, cosa alquanto bizzarra, devo riconoscerlo. Voce di donna che non vedo, ma sento dire che sono stati quei due ragazzi là. All'armi!, all'armi!, porte chiuse, che nessuno entri e che nessuno esca, il controllore minaccia una multa di mille euro per chi azioni ingiustificatamente il freno di emergenza, lei li ha visti?, per un attimo penso che stia parlando con me, e per poco non gli do una risposta degna di me (Chi? Io?), ma poi sento la voce di prima ripetere che sono stati quei due ragazzi là, il controllore si dirige verso , il macchinista prende la decisione e chiamo i carabinieri! Chiamo i carabinieri!
In tutto questo io mi limito ad alzare gli occhi al cielo e a pensare che, maledizione, per una volta che non abbiamo il solito ritardo e che... Colpo di scena! Non faccio in tempo a finire le mie tacite proteste che il controllore ritorna da  stupito anzi che no, urlando al macchinista che si son buttati dal finestrino! Ormai ci siamo dentro fino al collo, al peggior film d'azione. Certo che i finestrini sono tanto stretti, i due manigoldi devono aver avuto l'agilità di un'anguilla per uscirsene così. Già, comunque me li vedevo, quei lestofanti, orribilmente sfracellati sui binari, invece devono essersela data a gambe senza il minimo problema.
Fine del peggior film d'azione.
Dubbi della sottoscritta sulla teoria dell'evoluzione.
Voce di donna, non la zelante testimone, un'altra, dalla cadenza meridionale: Ormai questi ragazzi hanno sperimentato tutto, non sanno più come divertirsi, e fanno di queste cose. Ed è in queste occasioni, non tanto nelle scene da stuntman, che il mio stupore s'impenna: quando mi accorgo che la gente che dice ovvietà esiste veramente. Passa di nuovo l'indefesso controllore, la signora tenta l'approccio, Eh, questi ragazzi! Certo che se provavo io a uscire dal finestrino restavo incastrata! Poveretta, io avrei voluto far presente al controllore che se una donna arriva a pronunciare certe cose è solo per sentirsi dire che ma signora, ma sta scherzando, con quel corpicino lì, quanti ne fa girare, per strada, eh, birichina?, ma ormai il sollecito tutore dell'ordine era passato oltre, lasciando la povera signora a ridere da sola della propria battuta, ammesso che lo fosse.
Arrivo alla mia fermata, mi alzo, e per raggiungere la porta devo passare davanti a quella che finora era stata mera voce nascosta: era esattamente l'archetipo che le si richiedeva di essere, grassoccia e attillata, seduta come stanno sedute tutte le donne che si ostinano a indossare pantaloni a vita bassa di un paio di taglie in meno del dovuto, tintinnante di bigiotteria e intenta ad attaccar bottone con un'altra povera donna seduta lì vicino. Sì, ma questi ragazzi... (stava ancora parlandone) Ormai ovunque si va bisogna stare attenti. Stiamo diventando tutti un'unica razza. Non è bello, no. Non è mica bello, perché non...non... Fine. Non nel senso che sono scesa e mi son persa il seguito, ma proprio perché ha finito così il ragionamento. E quindi ho capito che forse, per partorire quella frase geniale che è the platitude from outer space, that's brother Nigel, beh, probabilmente Osborne viaggiava in treno.

sabato 30 giugno 2012

Non mi faccia parlare

Probabilmente trasgredire è un'arte, una sorta di privilegio che non tutti si possono permettere. Non sono trasgressiva, viaggio in autobus con il biglietto e non per timore del controllore, ma perché (nella realtà filtrata attraverso i miei occhi e il mio pensiero) è giusto così. L'unica trasgressione che al momento mi viene in mente è quella di un piercing all'elice, ma 1. penso che questa cosa abbia cominciato a essere considerata trasgressiva negli anni Quaranta e abbia finito di esserlo negli anni Sessanta; 2. dev'essere fastidioso farsi bucare lì, quindi addio trasgressione, ho paura.
Eppure incontro spesso gente che vuol far credere di essere trasgressiva, ovviamente senza rivelare dettagli o situazioni o fatti che dimostrino una cosa che in realtà, verosimilmente, non esiste.

Mi è capitato di recente di parlare di sostanze stupefacenti con persone diverse, con le quali non sono in confidenza. Non si trattava, o almeno così credo, né di spacciatori né di consumatori attuali o ex, erano semplicemente persone (chiedo scusa in anticipo, a me compresa, per l'aggettivo che sto usando) normali. Il mio interesse per la materia si restringe al desiderio di sapere cosa succeda chimicamente e fisicamente all'interno del cervello e, più in generale, del corpo. Va da sé, non ho alcuna intenzione di provarlo personalmente, trattasi di pura curiosità speculativa. Tutto questo per dire che posso considerarmi ignorante in materia: non conosco statistiche di diffusione e consumo, né stime del giro di affari legato al traffico di sostanze di questo tipo, non mi metto a fare psicologia spiccia sul perché qualcuno possa arrivare a farsi di qualcosa e infine, lo ammetto, non ho una posizione sul tema della liberalizzazione, e pazienza se mi vergogno di non riuscire a convergere a un sì o a un no.

Ho trovato interessante come, tra coloro con i quali ho affrontato l'argomento, ci fosse un atteggiamento comune e condiviso. Non tra tutti, ovvio, forse a conti fatti su un numero di individui che non ha alcun significato statistico, però sono spesso incline al seeing patterns and finding correlations, con buona pace delle statistiche. 

E sono molti di più di quelli che si pensi, a farne uso. Anche gente del tutto insospettabile.

Questa frase viene spesso pronunciata con espressione molto sorniona, abbastanza informata e blandamente preoccupata. Ora, posso capire che uno sia blandamente preoccupato: la cosa non lo riguarda e fine. Posso capire anche che voglia sembrare abbastanza informato, chi non lo fa su un qualunque argomento che vada dall'agiografia alla zoologia? Quello che non capisco è perché voler apparire molto sornioni nel dire un'affermazione di questo tipo. Si vuol farmi credere che, pur essendo puri e immacolati, se ne sa più di quello che si può dire (fatica inutile, non ci credo e non mi interessa), oppure lo scopo è quello di darsi un tono da bohémien che in realtà non si ha, non si è mai avuto e non si avrà mai? Si vuol fingere un lato intrigante e trasgressivo che neanche Dorian Gray?
Mi dispiace, io preferivo Lord Wotton.


lunedì 25 giugno 2012

It's a shame (such a shame)

O sono sbagliata io, e sto parlando del mio lato comportamentale, oppure l'alternativa è che faccio un uso erroneo delle parole. Di due sostantivi, in particolare: imbarazzo e vergogna. Secondo un'autorevole scienziata dell'Università della California a San Francisco (erano anni che sognavo di dire una frase da giornalista come questa), l'imbarazzo, così come il senso di colpa, coinvolgerebbe un elemento sociale che lo distinguerebbe da sentimenti come invece la rabbia o la tristezza, e si presenterebbe quindi solo in presenza di altre persone, derivando in gran parte da come pensiamo ci vedano gli altri.
La cosa non mi tornava, e quindi mi son messa a indagare. Maledizione, continuo a trovare gente (sempre autorevoli scienziati di qualche autorevole università di qualche california a caso) che conferma che ci si imbarazza di fronte a una persona, meglio ancora, l'imbarazzo rivelerebbe le grandi considerazione e importanza che questo individuo assume ai nostri occhi, talmente grandi da farci sentire inadeguati. Una sorta di sbilanciamento tra la nostra autostima e la stima verso l'altro, che genererebbe il conseguente disagio.
Insomma, tutti sono concordi nel dirmi che l'imbarazzo è sempre pubblico. Fine. La vergogna, per esempio, no, perché ha senso che ci si possa vergognare anche per motivazioni che nessun altro conosce, ma questo discorso non può essere fatto per l'imbarazzo, che mi piaccia o no.
E quindi forse basta che io inverta le parole che uso, perché se le cose stanno così non ci siamo mica. O meglio, non ci sono mica. Io mi vergogno in pubblico, non in privato, ma per imbarazzarmi posso benissimo essere da sola. E' il motivo per cui, anche se da sola, non riesco a vedere certi film, a leggere certi libri, ad ascoltare certa musica. Non devono essere cose brutte, per quelle brutte non c'è problema, non mi piacciono e fine. Anzi, talvolta non nascondo un certo gusto trash nell'approcciare, per esempio, libri che meriterebbero il macero. Ma qui si tratta di altro, si tratta di provare imbarazzo (o qualsiasi cosa esso sia, ho quasi l'impressione di essere affetta da daltonismo emozionale: ho imparato che questa disposizione d'animo di chiama imbarazzo, che questo giallo si chiama rosso, e continuo a chiamarlo imbarazzo anche se è giallo), di una cosa così viscerale e dipendente solo da I, me and myself che il libro non lo finisco, il film nemmeno, la canzone resta là, evito di partecipare a certe conversazioni. In quest'ultimo caso sì l'imbarazzo mi assume connotazioni pubbliche e sociali, ma non certo per uno sbilanciamento tra la mia autostima e la stima che provo per i presenti-parlanti. Per lo meno non uno sbilanciamento a favore di questi ultimi. E non è perché voglia fare la snob, è che proprio non ce la faccio, e quindi non dico la mia, mi va bene la loro, benché non la condivida.
Forse il problema è che in fondo sospetto che nessuno condivida quel certo modo di ragionare, che sia un simpatico teatrino dove ognuno recita, abbracciandola tacitamente, la propria parte. Non avrebbe quindi senso intromettersi, anzi, farei la figura dell'ingenua e della guastafeste se prendessi alla lettera come vero quello che invece è conveniente dire per una finzione collettiva supinamente accettata dai più.

giovedì 21 giugno 2012

Private (4)

Il sonno della ragione genererà anche tutti i mostri che vuole Goya, ma il risveglio tardivo della stessa può far di peggio.
Lei è la persona credo più ingenua che conosco, ingenua e semplice e impressionabile. Per autocitarmi potrei dire che il caffè non lo mescola proprio, ma lascia che lo zucchero si sciolga da solo, non sia mai che possa interferire con il Disegno. Molte volte l'ho osservata per capire come possa essere così, desiderando di trovare una sveglia che produca le frequenze giuste per scuoterla, per poi alla fine ripensarci, memore dell'odio che ho sempre avuto per chi distrugge i castelli di sabbia, fossero anche solo inconsapevoli onde.
Mi diceva che ha saputo, tramite quel mezzo antidialettico che a noi ci piace assai, la televisione (proprio l'oggetto, dico, esposto in salone) quanta acqua sia necessaria per le attività più comuni e quotidiane, per esempio quanta ne serva per produrre un chilo di carne, per fare una camicia, per costruire e disfare, insomma, per tutto. Secondo l'esperto pseudodivulgatore pseudoscientifico, sarebbe a causa del nostro vivere dissennato e dissoluto che milioni di persone non potrebbero beneficiare di sorella acqua.
Non ho avuto modo di ascoltare direttamente il saggio sermone, ma solo attraverso quanto mi ha riportato lei, smarrita e profondamente turbata, pericolosamente caduta da soffici cumulonembi. E quindi, mi chiede, cosa potremmo fare?
E posso io non arrabbiarmi? Purtroppo devo, limitandomi a dirle che non dipende da noi, che è così ora che siamo più di sette miliardi, ma era così anche quando eravate in quattro, di miliardi, e non vuol dire secoli fa, dato che lei c'era, ma non le posso disegnare una f(x)=e^x, né posso raccontarle che 2060 AD, 1.2 Million people.
Non siamo principi Amleto, né siamo destinati a esserlo.